Luisa Bonesio
Il vento del disgelo. Riflessioni per il passaggio
di millennio |
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Relazione al Convegno Arabeschi
di fine secolo, Vacallo (CH) 1999 |
4.
Epilogo
Verso la conclusione del romanzo Eumeswil,
lo storico Vigo, ricapitolando la logica delle vicende che hanno portato
la Terra alla catastrofe atomica, evidenzia un antagonismo tra le posizioni
degli “economisti” e degli “ecologi” di allora:
gli uni interpretavano la realtà per mezzo di categorie storico-mondiali,
mentre gli altri avevano raggiunto una visione storico-terrestre. Accadde
così che “affiorarono conflitti tra mondo umano e mondo naturale,
cui si aggiunse l’atmosfera apocalittica che suole ripetersi ad
ogni svolta di millennio. [...] Anche la concentrazione del potere è
propria delle età ultime. In tal caso, è necessariamente
di natura tecnica [...] Si potrebbe affermare che da un lato si armarono
i biologi, dall’altro i fisici. Gli uni premevano contro la griglia
organica, gli altri contro la griglia materiale: qui sui geni, là
sull’atomo. Il che li ha portati non solo al di sotto delle fondamenta
storiche, ma anche delle fondamenta umane - qui alla foresta, là
agli inferi” (30).
Questo brano è una sinteticissima ed efficace istantanea della
nostra epoca, diviso tra logica del mondo che vuole assoggettare la terra
e il limite irriconosciuto che rischia di levarsi d’improvviso come
un muro contro cui schiantarsi. Nel prosieguo della sua esposizione, Vigo
aggiunge: “Di tutto si dubitava, ma non della scienza […]
Le è riuscito ciò che era riservato ai Grandi Titani, che
hanno preceduto gli dèi, che li hanno anzi creati. Per prender
coscienza di tali mete, ad essa stessa celate, è stata costretta
a giungere ad una frontiera ove la morte e la vita offrono una risposta
nuova” (31).
Il pericolo, come ha più volte sottolineato Heidegger, sta nell’integrale
assunzione da parte della tecnica dell’assenza di scopi della volontà
di potenza, in quell’erramento che proviene nell’assicurarsi
di sé da parte delle scienza a partire dall’abbandono dell’essere,
nella produzione di un non-mondo in cui l’usura di tutto, uomo compreso,
produce solo la derealizzazione del deserto. Morte e vita esigono una
risposta nuova, ma essa non sembra profilarsi da nessuna parte: non nella
ragione tecnoscientifica, non in una teologia sempre più debole
e secolarizzata, non nella potenza mitopoietica dell’immaginazione
artistica, che nel nostro secolo ha dato di sé prove sinistre di
realizzazione, non nella politica, affare di amministratori e tecnocrati,
e nemmeno più nella volontà di resistenza ideale. Non può
dunque stupire che in questa situazione si produca una massiccia mobilitazione
di miti e simboli, invano repressi dai lumi del disincanto, oppure una
patetica rincorsa alla “sicurezza”, in cui lo scheggiarsi
di questo termine in mille disparati contesti mostra eloquentemente quanto
esso in realtà sia una parola apotropaica, una sorta di debole
rassicurazione tecnica al cospetto di una radicale, ontologica insicurezza
del nostro mondo.
Così la parola d’ordine della “sicurezza”, ogni
istante smentita dagli “incidenti” e dalle vittime sacrificali
al Moloch tecnico, funziona in modo analogo a tutte le rappresentazioni
che si illudono di arginare il male del mondo, di cosmetizzare la sua
devastazione, di trovare una ragione estetica nell’orrore e nella
bruttezza, di ritagliarsi un’isola felice nel mezzo di un oceano
di turpitudini. Come ci si può armare per ottenere sicurezza e
sconfiggere la paura che ormai sta diventando l’unica passione politica
del nichilismo? Lo dice Jünger, ultimo eroe dei tempi moderni, di
fronte a una minaccia che non coinvolge più singoli stati o singoli
individui, ma natura e umanità insieme, in un rabbrividire che
è quello della Terra che vuole “mutare pelle”, in una
progressione di distruzioni e catastrofi vanamente minimizzate dalla scienza:
cercando ognuno dentro di sé le radici di una Ragione più
profonda. “Soltanto in apparenza - scrive Jünger - tutto ciò
è disperso in tempi lontani e in luoghi remoti. In realtà
ogni uomo lo alberga in sé, a ciascuno è trasmesso in forma
cifrata per permettergli di comprendere se stesso nella sua forma più
profonda, sovraindividuale” (32).
Un’affermazione analoga e altrettanto perspicua la si trova in Eliade,
con il quale nel dopoguerra Jünger diresse la rivista “Antaios”:
“I simboli mantengono ancora il contatto con le fonti più
profonde della vita [...]. Il simbolo religioso traduce una situazione
umana in termini cosmologici e reciprocamente; più precisamente,
esso rivela la corrispondenza tra le strutture dell’esistenza umana
e le strutture cosmiche. L’uomo non si sente ‘isolato’
nel Cosmo; egli è ‘aperto’ a un mondo che, grazie al
simbolo, gli diviene ‘familiare’. [...] Ne consegue che colui
che comprende un simbolo, non solamente si ‘apre’ al mondo
soggettivo, ma allo stesso tempo riesce ad uscire dalla propria situazione
particolare e ad accedere a una comprensione dell’universale”
(33). Ed è appunto
una comprensione non chiusa in una prospettiva di antropocentrismo prometeico
a mancare all’umanità contemporanea: la radice della sua
derelizione sta nel suo essersi scardinata dal tutto, proiettando attorno
a sé il deserto che albergava nel fondo sterile della sua volontà
di potenza. Ma se il tutto ci è precluso epocalmente, nondimeno
ad esso ci si può orientare, ritrovando almeno la direzione verso
il centro: “Così anche la più insignificante creatura
può entrare in rapporto con il tutto e non appartenere soltanto
a una parte del meccanismo. Di qui fluisce enorme vantaggio e anche sovranità
[...]. Di conseguenza si può soltanto consigliare ad ognuno di
procurarsi questo sostegno, in qualsiasi condizione si trovi” (34).
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- 3 - 4 - Wege
30. E. Jünger, Eumeswil, tr. it.
di M.T. Mandalari, Rusconi, Milano 1981, p. 366.
31. Ivi, p. 367.
32. E. Jünger, Il trattato del ribelle,
cit., p. 71.
33. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine,
tr. it. di E. Pinto, Edizioni Mediterranee, Roma 19892, pp. 194-5 (cap.
V, “Osservazioni sul simbolismo religioso”).
34. E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945,
tr. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 451.
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