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Luisa Bonesio

Il vento del disgelo. Riflessioni per il passaggio di millennio


Relazione al Convegno Arabeschi di fine secolo, Vacallo (CH) 1999


3. L’orrore abita tra noi

Come tramutare la paura nel raggiungimento di una nuova sicurezza? Nel mondo del nichilismo è impossibile, e proporre una pacificazione e un rinnovamento a portata di mano, in stile new age, è mistificante. Il Passaggio a una nuova era, che faccia verdeggiare un paesaggio di fucina e ricomponga l’infranto di quel perenne cantiere di distruzioni che è la superficie terrestre, in cui si consuma la discesa verso la fine dell’ultimo uomo, non è certo assimilabile alla cosmesi “spirituale” promossa dall’industria del New Age. È necessario, piuttosto, passare attraverso dubbio e dolore, le due “macine” - come le definisce Jünger - del nichilismo: una prova che non sarà risparmiata a nessuno, un’interrogazione fatidica alla quale non si può che rispondere in solitudine, proprio perché ci si trova nell’epoca delle masse, perché il consenso è ottenuto con le regole del marketing che dissimula il pensiero unico. Ma se la solitudine rappresenta l’inevadibile orizzonte delle scelte ontologiche, se la singolarità è quello spazio dell’anarca che va difeso dalla collettivizzazione della mente e delle emozioni, non è meno forte la ricerca di radici e di comunità in un mondo la cui regola costitutiva è l’omologazione delle differenze.

Il “bisogno di orizzonte”, che spesso è nostalgia di orizzonti precisi, e dunque di limiti, definibilità, identificabilità di spazi e stili, di un ethos che consenta quell’abitare sulla Terra di cui si è fatta “canzone da organetto” e nondimeno rimane questione ineludibile, si manifesta nei modi più diversi, dalla ricerca del sacro e di ritualità deluse dalle religioni istituzionali, al tentativo di riscoperta delle proprie radici nel pagus, nella venerazione dei genii loci, nella cura del proprio territorio, della sua memoria, della sua segnatura divina che è alla base delle rinascite neopagane, alla disperata volontà di tener fede alla propria natio nell’epoca mondializzante della fine degli stati nazionali, fino a tutte le derive di chiusura intollerante, di restaurazione nostalgica e di impossibili ritorni a una barbarica selvatichezza. Il bisogno di orizzonte rappresenta un contromovimento rispetto alla direzione faustiana della volontà di potenza dell’Occidente, una sorta di esaurimento dell’ondata che ha travolto, in nome della sua ansia di travalicamento di ogni limite, culture e nature, religioni e paesaggi, ed è connessa a una sfiducia nell’onnipotenza della tecnica e ad una progressiva perdita di persuasività della ragione della scienza.

Alla desolazione del razionalismo si risponde, almeno in tutto il mondo occidentale, con un’immersione a tempo pieno nell’irrazionalità, nella fantasia, con un vuoto di senso che si fa riempire da immagini, spesso non proprio rassicuranti, che riconferiscano intelligibilità, senso e colore a ciò che altrimenti è destinato ad apparire come l’insensatezza spaesante della vita umana sulla Terra. E’ l’aspettativa millenaristica della distruzione cui concorre tutto il sapere delle varie culture che la modernità ha reso disponibile per chiunque, dalle profezie maya e incas alle leggende sulla fine del mondo precedente, dalla precessione degli equinozi con i suoi effetti catastrofici all’attesa degli extraterrestri, dal pellegrinaggio sincretistico nei più disparati luoghi sacri del mondo alle medicine alternative, dal teosofismo ai fiori di Bach: è la domanda, destinata probabilmente a non trovare soddisfazione, di salute e di salvezza, che in quanto tale non esita a rivolgersi in tutte le direzioni, comprese quelle più inattendibili.

Domanda di salute fisica e spirituale tragicamente disattesa nella razionalizzazione moderna, e ricerca di simbolizzazioni, credenze, comunità di intenti e di convinzioni con le quali arginare il deserto del nichilismo, la protervia dei detentori della tecnica, la satanica fantasmagoricità del mondo virtuale, lo sfondamento della Rete che non sostiene ma assai sottilmente imprigiona nella sua stessa retorica di libertà: tutte manifestazioni di quel ritorno del sacro e del divino in forma rovesciata e parodistica, tutti preoccupanti scricchiolii prodotti dalla Grande Muraglia che si sta sgretolando, segnali della solidificazione totale che si capovolge in svanimento e inconsistenza, effimero divenirismo. Ed è anche la risposta, spesso inconsapevole, all’inaccettabile riduzione materialistica che ha imperato, come un dogma indiscutibile o come il segno di un’appartenenza all’ideologicamente corretto, nei paradigmi interpretativi della cultura e all’idoleggiamento della “logica dell’inconscio” che ne è stato l’inevitabile, ma solidale, corrispettivo.

Se indubbiamente in questi fenomeni si esprime la reazione a un ideale tradito di sicurezza - ma come sarebbe potuto essere sicuro, stabile, il mondo moderno che si è progettato nell’indefinità dell’innovazione, nella distruzione delle tradizioni e dei luoghi, nell’irrisione della casa e della Heimat, dell’essere e del divino, in un trascorrere diveniristico e progressistico? - vi si può leggere forse anche un confuso desiderio di fine, di azzeramento, di palingenesi, fino allo squadernamento dei cieli, alla cancellazione della vecchia Terra, al passaggio attraverso fuoco e acqua dell’umanità. Come se l’opera di incessante abrasione delle certezze promossa dalla modernità, il martellamento distruttore di idoli e metafisiche, di morali e religioni, l’abbattimento in nome della liberazione di tutti gli argini che ci separavano dal nulla, la derisione delle forme in nome del caos, alla fine avessero abituato l’ultimo uomo a gettare uno sguardo al di là della propria sopravvivenza biologica, a considerarsi infine fossile tra fossili, uno dei tanti facitori degli strati geologici, dunque passibile a sua volta di finire, specie tra le specie. Il quale, nel volgere lo sguardo all’indietro, in una sorta di ricapitolazione del passato a metà tra il museo e il supermercato, scorge il reiterato annuncio della propria fine: non come teorizzazione o diagnosi filosofica, da Nietzsche a Anders, ma come visione e reiterata cifratura mitologica di un destino in cui solo un’accorta attenzione ai segni della terra e del cielo può accordare una nuova vita, dopo l’inevitabile periodica distruzione e rigenerazione. Ma per questo occorre la capacità di vedere la Terra e la storia da una distanza telescopica, di collocarsi nel punto di quiete del movimento: quell’invisibile punto in cui immobilità e azione coincidono, o forse la trasmissione di una memoria che rischia di rimanere per sempre sepolta insieme con i detriti dell’ultima civiltà umana.

In questa confusa attesa della palingenesi si verificano trasformazioni della massima importanza ai fini del “passaggio”, sulle quali Jünger si è soffermato in particolare in Avvicinamenti. La percezione dell’ultima modernità è quella di un approssimarsi inevitabile ad un confine, una soglia fatidica di trasmutazione: è nello scorgere l’inevitabile passaggio che il nichilismo da rassegnazione e qualunquismo si trasforma in assecondamento e buona volontà del finirla. Si potrebbe dire che se il pensiero che pensa l’oltrepassamento è rimasto per lo più inascoltato, nella grande chiacchiera dei costruttivismi e nei progressismi di vario genere, alla fine del secolo irrompono, in tutti i loro foschi o palingenetici colori, l’ansia e l’immaginario del passaggio. Inutile dire che ad essi non si può rispondere con la censura, l’emendazione neoilluministica, la buona volontà dell’intendersi, la consolazione di qualche terapia. Se è consentito esprimersi in modo un poco provocatorio, l’unica terapia per l’irrazionalismo consiste nell’uscita dal paradigma della ragione moderna, e dunque anche dalle sue inversioni caricaturali. L’uomo moderno è una figura tragica, secondo Jünger, perché possiede il metodo, la sua assicurazione e l’esattezza, ma fallisce nella sostanza: “Ci avviciniamo infatti a strati in cui anche le premesse della formazione dei giudizi toccano il punto di fusione. Così succede per alto e basso, sopra e sotto, destra e sinistra, vecchio e nuovo. Ed anche le norme si mettono in movimento - buono e cattivo, giusto e ingiusto, bello e brutto nell’ambito ecclesiastico, giuridico, artistico [...]. La crosta del magma si assottiglia. Nietzsche lo già visto molto presto. ‘Là dove io oggi ancora cammino, presto non camminerà più nessuno’” (24).

Già durante la seconda guerra mondiale Jünger ebbe netta la consapevolezza che l’epoca delle tempeste d’acciaio e della guerra di materiali si stava trasformando con grande rapidità in un’era di irradiazioni, nella quale il martello nietzschiano poteva essere deposto, perché ormai il crollo del vecchio edificio di riferimenti e certezze era avviato e schiere di demolitori erano già all’opera. Si schiudeva invece una fase in cui, prima dell’implosione definitiva, sarebbe stato necessario munirsi di nuovi strumenti per prepararsi al passaggio. “Ciò che qui continua a scricchiolare annuncia qualcosa di diverso, non annuncia soltanto abbattimenti. A noi sono riusciti i primi, incerti passi al di là della soglia dell’era delle radiazioni, un’era che richiede un equipaggiamento nuovo, anche nelle cose spirituali” (25). E’ come se improvvisamente l’umanità si ridestasse da un lungo sonno e si scoprisse impegnata in un viaggio di cui non conosce in realtà la meta, né ha modi per orientarsi: “Se ora noi ci troviamo su un’orbita nuova o, detto altrimenti, subiamo un mutamento che non ha precedenti nella storia del nostro mondo e delle nostre civiltà, dobbiamo pensare che tale mutamento stia accadendo fuori della nostra coscienza [...]. Un Grande Passaggio si manifesta con l’arricchimento di forze che certo hanno continuato ad agire nell’arte e nella storia, senza tuttavia esservi apparse nella loro purezza. La radiazione cosmica si fa più intensa, la trama tellurica si stende salendo in profondità. Sono eventi che possono o non possono fare scalpore: probabilmente proprio le fasi decisive passano inosservate. Improvvisamente il serpente è nella casa. Forse ha vissuto lì da sempre” (26).

L’immagine del serpente in casa esprime con grande efficacia lo spavento che lacera l’apparente domesticità e sicurezza, rivelandola di colpo unheimlich. Forse, suggerisce Jünger, non ci eravamo mai accorti che Altro fosse qui, in mezzo a noi, pronto a ridestarsi a tempo debito o a muoversi provocato dalla nostra maldestrezza. Qualcosa di elementare, forse qualcosa di sacro, ma comunque qualcosa di minaccioso per noi che non ne sappiamo più niente, che da lungo tempo abbiamo disimparato a riconoscerne i cenni; qualcosa può da un momento all’altro fare irruzione in casa nostra, ma solo perché era già da sempre lì, era in realtà il più prossimo, così vicino a noi da sfuggire a tutti i nostri sistemi di protezione e di assicurazione. Se il “rettile Storia” (Benn) è forse uscito definitivamente di scena, un nuovo rettile si insinua al suo posto. Ma la sua estraneità potrebbe essere soltanto apparente, come è provato dalla paura fobica che suscita: “Solo il terrore diventa più grande quando potenze provenienti dai tempi più antichi o dagli spazi più remoti sopraggiungono presso di noi. Questo terrore è un indizio del riconoscimento, un segno che le abbiamo già conosciute una volta” (27).

Anche un altro ambito in cui si manifesta la paura e il tentativo di abituarci ad essa, quello dell’immaginazione “giurassica” è altrettanto rivelatore: l’immagine dell’arcaico, un possibile ritorno del primordiale sembra minacciare l’algido cuore della modernità tecnologica. E’ il sembiante assunto nell’immaginario dalla primordialità a costituire il punto cieco dell’infuturamento moderno, la soglia enigmatica in cui tecnica e terra entrano in contatto e reciproca metamorfosi: “In questo senso, il serpente è un segno di confine - non certo l’unico. La sua comparsa risveglia una memoria ancestrale della vicinanza della trama in cui anche la differenza tra la vita e la morte, come tutte le differenze, scompare. Il velo si fa più sottile, incolore” (28). Si può quindi comprendere come questo sia l’animale araldico del pensiero jüngeriano, anche per la sua duplice valenza di risanatore e donatore di morte, e perché anche Nietzsche lo avesse scelto come uno degli animali-emblemi di Zarathustra. Esso è connesso alla distruzione delle forme e alla riemersione dell’indifferenziato che si manifesta nell’“enorme e spietata” circolazione di energia propria dell’epoca titanica, nell’affiorare di ciò che Jünger chiama “la pura vena dell’accadere” (29). Ma si tratta appunto di dimensioni che la scienza non è costitutivamente in grado di cogliere, e forse spesso nemmeno le religioni ufficiali, motivo per cui Jünger ripetutamente, a partire dalla seconda guerra mondiale, invocherà una Nuova Teologia, all’altezza della qualità escatologica dei tempi.

 

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24. E. Jünger, Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, tr. it. di U. Ugazio e C. Sandrin, Multhipla, Milano 1982, p. 259.
25. Ivi, p. 266.
26. Ivi, pp. 268 e 275.
27. Ivi, p. 281.
28. Ivi, p. 291.
29. Ivi, p. 298.