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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Il vento del disgelo. Riflessioni per il passaggio di millennio

Relazione al Convegno Arabeschi di fine secolo, Vacallo (CH) 1999


2. La paura sintomo del tempo

“La paura è uno dei sintomi del nostro tempo”, scriveva Ernst Jünger in Der Waldgang, attribuendo alla totalizzazione posta in atto dalla tecnica la responsabilità di avere reso abissalmente insicuro il mondo per l’uomo: “le città sempre più artificiali, le comunicazioni automatizzate, le guerre tra Stati e le guerre intestine, gli inferni delle macchine, il grigiore dei dispotismi, le prigioni e la più raffinata caccia alle streghe” (5) sono il panorama della mobilitazione totale, in cui la sicurezza della tecnica si divarica da quella del singolo: “Il processo si snoda tra due poli - di cui uno, quello della totalità, assume forme sempre più imperiose e avanza vincendo ogni resistenza. Troviamo qui il movimento compiuto, lo sfoggio regale, la sicurezza assoluta. Al polo opposto è il singolo, sofferente e inerme, in preda a un’insicurezza altrettanto assoluta. I due estremi si condizionano, giacché l’imponente esibizione del potere si regge sulla paura, e la coercizione ottiene i suoi risultati migliori dove la sensibilità è resa più acuta” (6). Il luogo del potere non è più nelle sedi tradizionali; è nelle mani di chi detiene la potenza della tecnica, unica fonte di autorità e di ricchezza. L’autorappresentazione della tecnica è nel segno di un’assoluta sicurezza, di quell’esattezza nella quale Heidegger individuava il raggiungimento da parte della volontà di potenza della “sicurezza estrema e incondizionata” (7), ma proprio quest’assolutismo della potenza tecnica, che decreta la fine di ogni verità, rinchiude l’uomo in un’oppressione tanto più forte quanto meno avvertita. Quando il singolo la sperimenta su di sé - per esempio nel dispotismo che l’organizzazione della medicina esercita su di lui - è normalmente impotente a contrastarla con efficacia. E’ stato, com’è noto, Heidegger a mostrare come proprio l’autoassicurazione della scienza circa l’esattezza dei propri procedimenti costituisca il massimo pericolo: “L’esattezza comanda sul vero e mette da parte la verità. Proprio la volontà dell’assicurazione incondizionata fa apparire l’insicurezza universale” (8). Non a caso, l’insicurezza della modernità viene battezzata da Jünger con il nome del transatlantico che, tecnologico, veloce ed elegante, si schianta contro il suo destinale iceberg: un particolare imprevisto, come molti che appartengono al mondo naturale, ma dotato di una sua fatale e stringente verità.

Ma - ci si potrebbe chiedere con Leszek Kolakowski - da dove viene l’immagine di un mondo “umiliato dalle proprie macchine? In virtù di quale rovesciamento il bosco coperto di neve e il ruscello montano ci appaiono d’improvviso come immagini ‘più umane’ rispetto all’immagine della fabbrica automatizzata?” (9). Bisogna essere attenti a non confondere la protesta antitecnologica nata nella scia delle filosofie di Adorno, Horkheimer, Marcuse, in nome di una ‘liberazione’ della natura che sarebbe stata anche liberazione della pulsionalità umana, - e che, come afferma Veneziani, “non partorì nulla di antagonistico rispetto alla civiltà borghese, tecnocapitalista che contestava; anzi, per molti versi, diede nuovo impulso alla secolarizzazione e alla modernizzazione” (10) - con le analisi della tecnica di Jünger o di Heidegger, in cui non solo non rimane nessuna prospettiva soggettivistica e umanistica, ma è anzi proprio l’intreccio di natura e tecnica a rivelarsi la cosa più inquietante. L’insicurezza non deriva soltanto dal fatto che “la cultura tecnologica ci consente di impadronirci del mondo come di una preda, ma non elimina davvero la sua indifferenza” (11), bensì piuttosto dal fatto che il mondo rivela un predominante aspetto di pericolosità e precarietà non più dominabile dall’uomo. La realizzazione radicalmente antiumanistica del progetto moderno si salda così con il soggettivismo orgogliosamente emancipato da natura e divinità. E’ di fronte a questo abisso spalancato, al caos che finisce per incarnare l’ossessione razionalistica della pianificazione che la paura diventa la passione dominante del tempo, manifestazione spesso oscura e informe di un patire che è stato privato persino delle parole, dei simboli, di un orizzonte, ma nel quale probabilmente è custodito ancora un granello di saggezza, la protesta di fronte all’accecamento spacciato per trasparenza, informazione, libertà, partecipazione, o per l’appunto, con espressione che dovrebbe far tremare, realizzazione di un’intelligenza “collettiva”.

La paura che si esprime di fronte al mondo dell’artificializzazione senza residui è quella dell’annientamento, reso possibile proprio dall’automatismo tecnologico, non frenato da nessuna forza di contenimento: “l’automatismo diventa terrificante soltanto se si rivela una delle forme della fatalità, di cui anzi è lo stile precipuo [...]. Dove l’automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile” (12). E’ il dominio dei nuovi titani che si sta delineando, dopo il tramonto del borghese e del suoi ideali di sicurezza, spazzato via dalla mobilitazione totale di ogni cellula del mondo ad opera della tecnica e del lavoro che la attua. Ma, con il tramonto della borghesia e l’avvento del tipo dell’Operaio, diventa obsoleto parlare ancora di individualità; piuttosto, ad essere minacciata è la stessa sostanza umana, in un incerto crepuscolo che avvicina vertiginosamente alla “mezzanotte della storia”, a quel fatidico “muro del tempo” la cui indeterminabile linea segna una trasmutazione metafisica della Terra e dell’uomo. “Il movimento si fa più preciso e, contemporaneamente, sempre ritornante, lo strepito diventa, allo stesso tempo, straziante e minaccioso. Le notti invocano un Hieronyms Bosch. Chi accede a questa dimora, è assalito dalla compassione. Ad essa corrisponde la speranza di poterne essere un giorno redento, di trattenervisi solo come ospite” (13).

Lo sguardo “pervaso dalla paura, da pesanti presentimenti” che cerca di scrutare l’a-venire, intravede la particolare natura dell’insicurezza contemporanea che sta alla base di ogni altra possibile manifestazione particolare: è l’incontro con l’arcaico, con una primordialità che storicismo ed evoluzionismo avevano creduto di potersi lasciare per sempre alle spalle, reso possibile dalla futuribilità tecnica, a sorprendere come un incubo. E’ “l’inaudita, prometeica audacia dei mezzi e dei metodi, il vulcanismo, il fuoco, il muoversi della serpe della Terra, l’apparire di mostri e l’impunità di cui beneficiano”, “il prevalere dell’elemento energia rispetto alla forma compenetrata di spirito” (14), lo scenario elementare, tellurico, in cui la volontà di potenza incarnata nella tecnoscienza si scatena titanicamente, ossia, come aveva già riconosciuto Nietzsche, nel gigantesco, nello smisurato, nel senza misura dell’informità e della hybris di un mondo responsabile dell’uccisione di Dio. E a suscitare spavento è questo automatismo ctonio, analogo all’orrore che suscita il muoversi di un serpente, immagine di quell’indifferenziazione primordiale e proteica che, secondo Jünger, la tecnica sempre più da vicino persegue, dalle sue creazioni organiche alla manipolazione genetica, come se l’Urgrund cominciasse a muoversi, il velo di Maya a lacerarsi: “Esiste uno spavento suscitato non tanto da un accrescimento del movimento masssiccio quanto dall’affermarsi o dall’insinuarsi di qualcosa di diverso”, appunto come l’effetto di un sottile frusciare nel silenzio (15).

Tutto ciò accade ad opera di una ben precisa umanità storica, alla cui attività sembra non esserci freno o contraltare, nonostante le pie illusioni di un’etica che vorrebbe riformare il faustismo della modernità: infatti, come argomenta Umberto Galimberti, “se si può parlare di ‘responsabilità’ solo in presenza di una consapevolezza della propria azione e delle sue conseguenze, là dove il sapere individuale e collettivo è inadeguato all’ordine di grandezza della competenza tecnica che conferisce potere al nostro agire, difficilmente le parole pronunciate da un’‘etica della responsabilità’ possono [...] assumere un qualche significato nell’ambito del fare tecnico” (16). E’ la percezione delle conseguenze incalcolabili della violazione continua dei limiti, degli equilibri complessi della natura, la superstizione del potere di una ragione identificata unidimensionalmente nella sola prestazione calcolante a suscitare la paura dell’annientamento. E se ogni mondo ha una sua fine, “ben triste è la concezione di una fine del mondo senza aspetti trascendentali, metafisici, senza la potente luce che da essa procede e che distrugge la paura” (17).

Il fuoco della combustione di questo mondo è stato dunque acceso dalla modernità, ossia da quella forma di ragione che rivendica, sia pure con mille ineffettuali sensi di colpa, orgogliosamente le proprie conquiste, ed “ammettere che la distruzione, nella forma di una fine del mondo, di una catastrofe cosmica, possa dipendere dall’uomo, dalle sue decisioni, è un fatto nuovo, anche se tutto dovesse ridursi a fantasia” (18). Alla soglia del transito nel nuovo millennio, le paure apocalittiche si ridestano: magia intrinseca dei numeri, della loro portata simbolica? O non piuttosto il fatto che i numeri cifrano una svolta necessaria, ed è vitale comprendere in quale direzione fa segno la paura della fine? Tutti i grandi pensatori moderni, a partire da Nietzsche, hanno pensato la fine di un’epoca del mondo, ne hanno intravisto la chiusura al di là dello stordimento tecnolatrico: non ad altro pensava Nietzsche con la figura dell’oltreuomo, benché poi l’Übermensch si sia realizzato piuttosto come potenziamento titanico dell’ultimo uomo. E nessuno quanto Jünger ha scrutato il senso della paura moderna della catastrofe cosmica: “E’ un segno che noi siamo giunti in uno stadio nel quale ne va del destino della terra in quanto tale, per cui gli sviluppi in corso riguardano non solo ogni uomo che abita il nostro pianeta ma altresì l’intera natura animata e inanimata” (19).

Niente che vacilli come la terra sotto i piedi genera un analogo senso d’insicurezza: ma fosche immaginazioni apocalittiche e patetica volontà di rassicurazione scientifica concorrono a rafforzare la sensazione che davvero solo un Dio potrebbe ancora salvarci. Nemmeno nella vita del singolo, tuttavia, si può trovare riparo dalle mareggiate del dubbio e da una diffusa insicurezza che permea ogni istante dell’esistenza. L‘edonismo controfobicamente esasperato della società stenta a cosmetizzare una presenza dilagante della sofferenza, della sopraffazione, della violenza, della barbarie da cui nessun recinto dell’interiorità può tenere abbastanza lontano. Non solo la nostra vita partecipa o assiste in diretta a terremoti, uragani, guerre più o meno intelligenti o più o meno stupide, persecuzioni etniche che avvengono sempre meno ai confini dell’impero; non solo assistiamo al quotidiano sfarsi delle regole del vivere civile, all’imbarbarimento estetico ed ecologico dei luoghi, ma la singolarità di ciascuno si trova esposta a un radicale pericolo di cancellazione. Chi porta il peso del nostro benessere? Certo la Terra mondializzata, ma noi stessi in primo luogo: già nell’Operaio, Jünger aveva mostrato come sarebbe stata vana ogni difesa borghese nei confronti del dolore e dell’elementare. “Il tentativo di imbrigliare artificialmente le forze elementari potrà impedire bensì i contatti più ruvidi ed eliminare le ombre più crude, ma non certo la luce diffusa con cui il dolore penetra nello spazio e si prende la sua rivalsa” (20).

I modi, le forme e la quantità in cui il dolore abita il nostro mondo sono stati enormemente ampliati dalla modernità, e in nome di un benessere mediocre vanamente si è cercato di respingerlo ai margini, di confinarlo in una zona d’ombra. Secondo l’inflessibile legge in base alla quale “più s’innalza l’argine artificiale che separa l’uomo dalle forze elementari, tanto più cresce la minaccia” (21), le fabbriche della morte si espandono sempre più, senza però che alla crescita smisurata della sofferenza corrisponda più nessun senso spirituale o eroico, poiché l’umanità si è autoridotta a materia e materiale, a res extensa sulla quale la scienza esercita impunemente le sue manipolazioni: “Il segreto della moderna sensibilità sta nel fatto che essa corrisponde a un mondo in cui il corpo è il valore supremo. Ne risulta allora che il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa” (22). L’uomo moderno ha dunque raggiunto lo statuto che ha assegnato alla natura: mera corporeità materiale, puro funzionamento fisiologico, soltanto con un po’ di psicologizzazione, altro sintomo dei tempi. Il riduzionismo con cui la Ratio moderna ha destituito la natura e il divino puntualmente e con effetti moltiplicati finisce per colpire l’umanità stessa che se ne è fatta promotrice: ancora una volta, la crescente oggettivazione della nostra vita ad opera della tecnica va di pari passo con l’aggressione del dolore, “tanto più in quanto il carattere di comfort della nostra tecnica tende a confondersi in modo crescente con un carattere strumentale di potenza pura” (23).

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6. Ivi, p. 44.
7. M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 57.
8. Ibidem.
9. L. Kolakowski, Presenza del mito, tr. it. di P. Kobau, Il Mulino, Bologna 1992, p. 118.
10. M. Veneziani, L’antinovecento. Il sale di fine millennio, Leonardo, Milano 1996, p. 12.
11. L. Kolakowski, op. cit., p. 118.
12. E. Jünger, op. cit., pp. 46 e 47.
13. E. Jünger, La forbice, tr.it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, pp. 112-113.
14. E. Jünger, Al muro del tempo, tr. it. di C. D’Altavilla, Volpe, Roma 1965, p. 47.
15. Ivi, p. 184.
16. U. Galimberti, Psiche e techne. l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 462.
17. E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 112.
18. Ivi, p. 115.
19. Ivi, p. 117. Si noti che già Spengler, in conclusione al Tramonto dell’Occidente, scriveva: “La natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto forma di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana” (O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, tr. it. di J. Evola, Guanda, Parma 1991, p. 1395), e anche: “E ciò che si è svolto nel corso di appena un secolo è uno spettacolo di tale potenza, che l’uomo di una futura civiltà, di una civiltà con un’anima diversa e con diverse passioni, avrà il sentimento che la stessa natura ne doveva esser stata scossa nel suo equilibrio” (ivi, p. 1391).
20. E. Jünger, Il dolore, in Foglie e pietre, tr. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, pp. 149-150.
21. Ivi, p. 152.
22. Ivi, p. 153.
23. Ivi, p. 168.