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Luisa Bonesio

Il vento del disgelo.
Riflessioni per il passaggio di millennio

Relazione al Convegno Arabeschi di fine secolo, Vacallo (CH) 1999

 

“In me parla lo spirito occidentale, che è come dire, comunque, la disgregazione della vita e della natura, la loro disgregazione e ricomposizione secondo la legge umana, quel principio antropologico che separò le acque dal firmamento e i profeti dai folli”.
(G. Benn,
Osteria Wolf)

“Era tornata quell’ora, l’ora in cui qualcosa si ritraeva dalla terra, lo Spirito o gli dèi o ciò che era stato sostanza umana - non si trattava più della decadenza di un singolo uomo, nemmeno della decadenza di una razza, un continente oppure un ordine sociale, un sistema storico, stava accadendo invece qualcosa di assai più radicale: la mancanza di avvenire di un intero parto della creazione era diventata un sentimento collettivo, una mutazione [...], in breve: il Quaternario regrediva”.
(G. Benn,
Il tolemaico).

1. Un orizzonte sfondato

Di quello che Marcello Veneziani ha definito “il secolo nietzschiano”, non si potrebbe certo dire che il tratto fondamentale sia stato l’oltrepassamento del nichilismo: piuttosto il Novecento appare l’immane campo di battaglia del “più inquietante di tutti gli ospiti”, e il panorama delle rovine che hanno costellato l’inesorabile avanzata della forma epocale della volontà di potenza: la tecnica, che, insediatasi nel rango cultuale lasciato vacante dalla morte di Dio, ridefinisce gli orizzonti del mondo. Alla sua estremità finale, il “secolo breve” - o forse piuttosto il secolo interminabile - appare percorso dalle cyber-infatuazioni e da una ricerca assai rivelatrice di nuovi dèi. Nella sua pseudomorfosi con l’immateriale e lo “spirituale” (Jünger), la tecnica sembra celebrare il suo definitivo trionfo, la tendenziale sostituzione dell’imperfetto animale uomo con la perfettibilità esatta della mente-macchina e dei suoi prolungamenti virtuali. Il vecchio mondo, esaurito ed esplorato in ogni suo recesso, troppo ristretto per gli appetiti titanici della modernità, si vede indefinitamente moltiplicato nel cyberspazio, destinato a porre termine all’obsoleta credenza del dentro e del fuori, dell’interiorità e della materialità, di me e del prossimo, del vicino e del lontano. Finiti i tradizionali spazi antropologici della Terra, del Territorio, del Mercato, la tecnoscienza riapre il mondo alla costruzione e all’immaginazione da parte di un’intelligenza collettiva, del funzionamento di un unico organismo in cui l’intelligenza “retificata” appare nei termini di “una infrastruttura tecnica del cervello collettivo o dell’ipercorteccia delle comunità viventi” (1).

Definitivo trionfo della tecnoscienza, celebrazione della oggettivazione senza residui del mondo, dell’educazione illuministica al razionalismo, al controllo delle passioni, in un mondo dove irrazionalità, superstizioni e paure sono state sconfitte? Il secolo è costellato da autorevoli dubbi sulla riuscita emancipatoria della Ratio occidentale: da Spengler a Horkheimer e Adorno, da Valéry a Heidegger, da Guénon a Jünger e molti altri, la diagnosi è univoca. Non solo la tecnica moderna non ha liberato dal dolore, ma lo ha squadernato in sempre nuove e più crudeli possibilità; non ha attenuato la fatica e la presenza del lavoro, bensì lo ha dilatato a dimensione onnipervasiva e totalizzante della nostra vita da schiavi; non ha sconfitto malattie e sofferenze, bensì ne ha prodotte di nuove; non ha reso più sicura la vita sociale, più tranquillo il futuro, perché, anzi, l’insicurezza proviene proprio da ciò che dovrebbe sconfiggerla e “gli incidenti della tecnica” sono l’enorme tributo di vita che l’epoca paga al suo idolo. Insomma, “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura” (2), per dirla con il celebre incipit della Dialettica dell’Illuminismo; ma tutto ciò è reso possibile da un preliminare e radicale dis-orientamento che ha privato la modernità di un orizzonte e di una collocazione cosmica. La Terra sciolta dal suo sole vaga in un infinito nulla, in una notte sempre più notte, nella desolazione della sua “libertà” faustiana da ogni limite. Se Dio appare alla razionalità metodicamente assicurata “un’ipotesi troppo estrema” (3), nondimeno gli dèi o i loro simulacri sono ripullulati per ogni dove, l’“irrazionalità” abita stabilmente il cybermondo, e la “domanda” di sacro e di divinità più o meno improbabili dilaga nel planetario supermercato delle merci e delle immagini. La figura dell’apprendista stregone non è più solo quella dello scienziato che in nome del sapere produce catastrofi (“L’imagine del mago moderno: un quadro di interruttori con leve e segni, permettente all’operaio di produrre con la semplice pressione di un dito effetti possenti di cui pur ignora la natura, ci rappresenta il simbolo della tecnica umana in genere. L’imagine del mondo illuminato che si stende d’intorno quale ce la siamo formata criticamente e analiticamente come teoria, appunto come imagine, non è che un tale quadro di interruttori sul quale certe cose sono segnate in modo che ad un contatto certi effetti noti ne seguendo con certezza. Ma il mistero non è da ciò reso meno angoscioso” (4)), ma anche quella di un’umanità desolata intenta a crearsi pericolosi cocktails di sciamanismo e astrologia, neopaganesimo e stregoneria, millenarismi e fantarcheologia, ecofemminismi e ufologia, in una propiziazione della Nuova Era che oscilla tra il più bieco consumismo e il più disperato bisogno di sacralità e di prospettive non semplicemente umane, nella dissoluzione di un mondo che si è progettato disincantato e laico, illudendosi che la superstizione fosse definitivamente dietro di sé.

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1. Cfr. P. Lévy, Il virtuale, tr. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Cortina, Milano 1997.
2. T.W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di L. Vinci, , Einaudi, Torino 1966, p. 11.
3. L’espressione è di F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1990, fr. 5 [71].
4 . O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. di J. Evola, Guanda, Parma 1991, pp. 1386-87.
5. E. Jünger, Il trattato del ribelle, tr. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990, p. 43.