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             Luisa Bonesio Conservare il paesaggio   Lezione nell'ambito della summer school Università 
              di Bolognasulla "Morte del paesaggio", 
              giugno 2002
 |    2. Il territorio è conservatore
 Se fin dai suoi inizi tardo-ottocenteschi, la tecnica ha ridotto l’orbe 
        a un paesaggio fabbrile e a un immenso, disarmonico cantiere, facendo 
        del dissesto perenne la legge strutturale della sua avanzata,
 
 "occorre tener presente che, se vogliamo riferirci 
        al mondo odierno dell’uomo, cioè a una civiltà per 
        quanto in crisi estesa a tutto il globo e quindi non più estensibile 
        materialmente, ma solo qualitativamente, si tratta di una costruzione 
        a stadio molto avanzato. L’area assegnata definita, occupata prima 
        parzialmente da sporadiche e precarie strutture, poi totalmente da più 
        strutture separate, ma stabili e intensive, ha finito per raggiungere 
        i limiti di sfruttamento".
 
 I rapporti tra aree ad elevata densità e impatto abitativo o industriale 
        devono necessariamente essere controbilanciate da aree vuote o rade, e 
        non è possibile alterare un certo equilibrio sia all’interno 
        del territorio stesso che fra territori diversi: "Negarli è 
        solo futile, velleitario, dispersivo e alla fine destinato all’insuccesso, 
        al rovesciamento con risultati opposti, accendendo un processo depressivo 
        tanto più grave, quanto più grave è la manomissione 
        compiuta".
 In questo cantiere che ha estensione tendenzialmente planetaria, ma che 
        esercita una devastante incidenza in luoghi sempre specifici, è 
        giunto il momento di pensare non più in termini di ulteriore espansione 
        e intensificazione dello sfruttamento, ma di riuso, manutenzione, restauro, 
        abbellimento, di periodico riassetto e di correzione di abusi ed eccessi. 
        Non si tratta di opzioni di basso profilo, rinunciatarie, se si pensa 
        che è proprio a causa della perdita di consapevolezza dei limiti 
        intrinseci di ogni costruzione umana (e del contesto che la rende possibile), 
        che la civiltà corre il rischio di autodistruggersi: "La trasformazione 
        della terra da parte dell’uomo, dapprima per lunghissimo tratto 
        irrilevante, è andata accentuandosi man mano che crescevano forze 
        operative della società umana, giunte a condizionare la vita biologica 
        spesso in modo devastatorio autolesivo": ci troviamo su quella linea 
        (o forse l’abbiamo già oltrepassata) in cui la Terra richiede 
        uno sguardo unitario, che non sia solo quello unilaterale e disponente 
        della tecnica o quello, ancor più miope, dell’economia; ma 
        questa consapevolezza globale di aver raggiunto il limite dell’equilibrio 
        deve essere declinata ogni volta nella specificità delle configurazioni 
        territoriali e dei loro peculiari punti di equilibrio e di conservazione.
 Ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, 
        non appiattibile a semplice superficie disponibile per qualsiasi manomissione; 
        bensì una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità 
        funzionali diverse, scale differenti e orientamenti differenziati che 
        non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati inerti, 
        ma piuttosto si armonizzano in una vitale integrazione e collaborazione 
        resa possibile dalla presenza articolante e vivificante di una stessa 
        matrice di interpretazione e configurazione spaziale e simbolica. Così 
        nei nostri territori
 
 "convivono e si integrano la centuriazione romana 
        e i grandi percorsi naturali, gli insediamenti locali propri delle età 
        iniziali ribaditi intatti nel Medio Evo e la città comunale, ricalcante 
        quasi costantemente la colonia romana e la polis 
        preromana; il tessuto e la struttura stessa dei campi è un acquisto 
        sostanzialmente mai perduto, sempre ritrovato, perché intrinseco 
        alla natura dei luoghi e all’uso che dei luoghi l’uomo può 
        farne e seguiterà a farne. Questa è la lezione che il tessuto 
        ci dà: ed è, per chi la sa leggere, una alta lezione al 
        tempo stesso di realtà e di umanità".
 
 Quello stadio di nuova consapevolezza civile, che ormai quarant’anni 
        fa invocava Saverio Muratori, sembra incontrare ancora molti ostacoli 
        sul proprio cammino. Eppure solo da una lettura consapevole del territorio 
        locale, nelle sue interconnessioni globali, può essere compresa 
        la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria (oltre che ecologica) 
        di un modo nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il 
        progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di 
        tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità 
        dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizionali, memoriali, differenziali, 
        con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di evitare il degrado, 
        l’abbandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria 
        dimora.
 
 "Il territorio è una struttura essenzialmente 
        unitaria, concreta, totale e univoca; che tuttavia, appunto perché 
        è insieme unitaria, cioè permanente, e concreta, cioè 
        polivalente, non può che essere stabile e crescente, cioè 
        conservativa e accumulativa; e che appunto per essere insieme totale, 
        cioè molteplice, e univoca, cioè individuale, non può 
        che essere ciclica e asintotica, cioè integrativa e confermativa 
        di se stessa all’infinito".
 
 Se ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, 
        opera in accordo con il nomos dei luoghi 
        per poter fiorire e mantenersi, la contemporaneità mercantile e 
        speculativa, con una caratteristica miopia, anche in fatto di gusto, finisce 
        con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo 
        virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo misconoscimento 
        dell’idea stessa di "conservazione".
 Eppure, "conservare" significa tenere presso di sé (cum-serbare), 
        preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione, ciò che 
        si ha a cuore, dunque con un’intensità che può concernere 
        solo ciò che davvero conta per noi: tutto il contrario dell’accezione 
        freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo 
        più risuona alle nostre orecchie questa parola, e che presuppone 
        un automatico disinteresse e una subitanea dimenticanza per quanto, essendo 
        stato catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito 
        di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta 
        che lo si voglia. Una paradossale forma di conservazione, quella della 
        modernità, l’approntare istituzioni che consentano la buona 
        coscienza dell’oblio e della distruzione, siano esse musei o parchi 
        a tema, oppure "riserve" etnografiche di vario tipo, con tanto 
        di "mediatori culturali". Un illusorio trattenere dalla scomparsa 
        definitiva quei mondi che lo stesso Occidente - dentro e fuori di sé 
        - ha incessantemente sfigurato e cancellato; non a causa di un generico 
        processo di inevitabile entropia che dalla perfezione dell’origine 
        porterebbe ineluttabilmente il mondo alla sua fine, a una disintegrazione 
        concepita in termini meccanici o energetici, bensì in una precisa 
        destinalità connessa all’affermazione della cultura dell’illimite 
        faustiano, che ancora oggi, in quasi ogni atto o scelta le nostre società 
        esprimono.
 Eppure, solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al 
        futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è 
        colui il quale è dotato di più lunga memoria; chi, si potrebbe 
        dire, ha le radici più profonde e ramificate, saldamente piantate 
        nel terreno delle sue tradizioni. A differenza di quanto ha pensato la 
        cultura faustiana dell’Occidente, non è andando-via, nel 
        nomadismo senza riferimenti né orizzonti, nella scelta "oceanica" 
        dell’illimitato e immisurabile che si trova la promessa dell’a-venire, 
        bensì in una rinnovata consapevolezza del proprio orizzonte nella 
        sua ineliminabile embricazione con gli altri orizzonti, accessibili uno 
        alla volta, nella propria specificità: non quindi nella "grande 
        discarica" dell’omologazione, nel mercato dove si trovano i 
        detriti e le caricature di tutte le culture del mondo, e nemmeno in quella 
        "santificazione delle scorie" in-differente che, con gesto uguale 
        e contrario alla generalizzazione della distruzione e dell’indefinita 
        riproducibilità, eleva a "bene culturale" (dunque meritevole 
        della conservazione istituzionale) ogni oggetto che appaia "originale":
 
 "Il bene culturale mette sullo stesso piano la 
        roncola contadina, l’affresco rinascimentale, la basilica paleocristiana, 
        il tetto a falda di una baita alpina e il sanitario avanguardistico, facendo 
        diventare tutti i prodotti degli originali storico-artistici e tutti noi 
        protagonisti a pari merito nell’immaginario Olimpo democratico".
 
  
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