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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Conservare il paesaggio

Lezione nell'ambito della summer school
Università di Bologna sulla "Morte del paesaggio", giugno 2002

 

1. Mantenere e tutelare

La questione della "conservazione" è un problema cruciale e ineludibile, e insieme, come un tema e un termine difficili da pensare e da argomentare, per l’immediata - quanto spesso irriflessa e pregiudiziale - diffidenza che suscitano. Eppure, dovrebbe essere intuitivo che la "conservazione" è un aspetto non secondario in qualsiasi riflessione che voglia comprendere la realtà del paesaggio al di là del mero studio delle poetiche del passato: alla "conservazione" e alla tutela dei beni culturali, ma anche ambientali, sono dedicati corsi di studio e di specializzazione universitaria, specifiche istituzioni, saperi e tecnologie. Sembrerebbe dunque ovvio che l’elaborazione di un pensiero del paesaggio (o del territorio) come identità singolare dei luoghi non possa esimersi dal porsi la questione e interrogarsi sul valore della conservazione, e che il dibattito sulla conservazione, presente e vivo in ambito architettonico e storico-artistico, debba essere affrontato anche dal punto di vista filosofico ed estetico, e possibilmente geofilosofico.

Di fronte al paesaggio di Orte scempiato dal disordine e dalla sciattezza delle nuove edificazioni, Pierpaolo Pasolini poteva legittimamente mostrare come il degrado estetico andasse congiunto a una decadenza civile e sociale. Del pari, Cesare Brandi, già negli anni Sessanta, denunciava aspramente l’inizio del disastro civile e ambientale che si stava prefigurando per l’Italia proiettata nella logica del boom economico, nell’incomprensione per il valore di irrepetibile identità del paesaggio italiano, del suo essere non un generico pittoresco, "ma un pittoresco storicizzato, assurto a fisionomia stessa del paese", rivendicando un’attiva difesa e sostegno all’agricoltura, di contro all’industrializzazione più irresponsabile, come la forma più efficace di salvaguardia della facies dei paesaggi storici. Analogamente, tutto il mondo ha stigmatizzato il vandalico abbattimento del ponte di Mostar, simbolo e realtà della cultura bosniaca: la sua distruzione faceva parte della volontà di annullare la specificità della cultura (evidentemente non solo estetica) che lo aveva costruito e conservato come segno e parte irrinunciabile del proprio essere. Analogamente, quando i Taliban hanno fatto saltare in aria le colossali statue del Buddha di Bamiyan, l’opinione pubblica ha correttamente compreso che, oltre l’iconoclasmo islamico, era stata determinante una volontà di umiliazione e annichilimento di un’altra millenaria tradizione. Però, oggi, se si pone l’accento sull’inscindibilità della manifestazione estetica di un paesaggio dalla sua realtà culturale, dalle modalità dell’abitare che in quel luogo si realizzano (dunque delle scelte economiche, ecologiche, sociali, sacrali, ecc.), mostrando come lo scempio paesaggistico e la dissipazione del patrimonio storico e architettonico non sia una deplorevole svista causata dalla priorità di questioni ineludibili (l’economia, il mercato, la modernizzazione), ma discenda necessariamente dal modello culturale della modernizzazione e dall’indiscriminata apertura a modelli globalizzanti, immediatamente si è sospettati di "conservatorismo".
Nella letteratura degli esperti di conservazione dei beni monumentali e architettonici, invece, è abbastanza normale esprimere allarme e indignazione per la distruzione accelerata portata dalla "ruspa del moderno":

"Che si tratti di uno sventramento per celebrare qualche aquila reale alla conquista del mondo o di una radicale pianificazione urbana in nome di qualche marchio alla conquista del mercato, su un punto convergono le eredità depositate nell’immaginario collettivo dalla modernizzazione affannata e dall’autoritarismo barbarico: la dissoluzione del tessuto tradizionale, l’umiliazione del valore civico, la distruzione del bene culturale".

Ma anche nei più autorevoli urbanisti, negli ultimi anni, forse anche a motivo della presenza di un clima di pensiero geofilosofico, ricorre l’affermazione della improrogabile necessità di mutare i paradigmi della pianificazione, i suoi obiettivi, ritmi, strumentazioni tecniche e concettuali: la necessità di conservare, ripristinare, ma anche di demolire e de-costruire, riconoscendoli come aberrazioni dannose, molte costruzioni (residenziali, ma anche infrastrutture) realizzate nei decenni scorsi in nome del modernismo e della modernizzazione. Nel contesto tardomoderno in cui giungono al più alto livello la crisi e l’insostenibilità di un modello di sviluppo basato sul dogma di una crescita illimitata, e dunque sulla riduzione del territorio a estensione indifferentemente manomettibile dalla tecnica e da criteri di economicità dettati dalla globalizzazione, si impone con urgenza la questione della distruzione irreversibile di quel patrimonio che sono i luoghi, una volta che vengano interpretati come meri depositi di risorse. Il territorio, in quanto realtà naturale e ambientale, ha proprie regole di conservazione e riproduzione (di lunga durata), le quali, se vengono ignorate, portano al dissesto e alla distruzione. I luoghi sono sempre dotati di una propria "individualità" (che il geografo Vidal De La Blache chiamava la "personalità") che costituisce propriamente la loro facies culturale, il loro essere "paesaggio" prodotto da comunità che ne rispettano la legge singolare di configurazione e mantenimento. Se i luoghi si mantengono nella propria differenzialità singolare grazie a continui atti territorializzanti - cioè a comportamenti e scelte che conservano e incrementano il "senso" della loro specificità, la questione della "conservazione" non può che assumere un ruolo centrale.

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