Luisa Bonesio
Pensare come una montagna
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C. Amiet, Der
gelbe Huegel
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Pubblicato in
Antonio Stragà (a cura di), Oltre le vette. Metafore, uomini,
luoghi della montagna,
Il Poligrafo, Padova 2000 |
3. Mons silvaticus
L’orizzonte di tutte queste considerazioni è la
questione epocale dell’identità dei luoghi, della loro salvaguardia
e del loro significato. Rilke, alla svolta del secolo, affermava la necessità
di sottrarre alla consuetudine le nostre immagini della natura e dei paesaggi,
logorate dalle molte rappresentazioni letterarie e iconografiche, fino
ad essere diventate un cliché che
impedisce lo sguardo su ciò che veramente è. Lasciare che
la natura ci ridiventi straniera, per coglierne l’effettiva
estraneità al mondo delle nostre rappresentazioni, e, misurando
questa distanza, lasciar essere la differenza, accettare che tutto quanto
vi è di comune fra uomini e cose si ritiri nella “profondità
comune donde traggono nutrimento le radici di ogni divenire” (14).
L’esigenza di lasciare che la natura si ritragga nell’enigmaticità
e quindi riconquisti, nella distanza, la sua aura, è la sostanza
delle posizioni di difesa della Wilderness,
gli aspetti selvatici del paesaggio terrestre, non certo per amore di
esotismo, ma nel nome di un’estrema difesa delle radici selvatiche
della stessa umanità, di quella radicatezza senza la quale la cultura
è messa a repentaglio. La selvatichezza è il terreno vitale
in cui crescono le culture attente alla necessità di non interrompere
la comunicazione con l’altro, e dunque consapevoli della loro dipendenza
dall’altro: sia nel senso della sopravvivenza e prosperità materiale,
che in quello simbolico, della differenza
in relazione alla quale soltanto può sussistere identità.
Quando la dimensione della selvatichezza viene attaccata e distrutta,
la terra feconda in cui si radicano le civiltà si trasforma nel
deserto di cui parla la filosofia del Novecento. Desolazione di un luogo
andato in rovina, sia negli aspetti naturali che nelle realizzazioni della
cultura: solitudo, in cui l’uomo è
rimesso alla via senza uscita della propria stoltezza. La desertica ripetitività
del sempre uguale è il destino di chi pensa che la natura, soprattutto
nei suoi aspetti indomiti, sia un fastidioso contrattempo sul cammino
della progettualità umana.
La Wildnis è la questione dell’intera
civiltà terrestre nell’epoca della tarda modernità. Occorre
perciò salvaguardare attivamente la fisionomia singolare dei luoghi
riconoscendone le radici selvatiche: senza la presenza e la simbolizzazione
dell’estraneazione incarnata nel lato ombroso della civiltà, nel
selvatico appunto, la costruzione umana è
destinata a somigliare a una torre di Babele cui venga meno il fondamento.
La presunta razionalità che vige nell’ordine metropolitano, assieme
a tutte le sue realizzazioni, assomiglia sempre più a una sopravvivenza
fantasmatica di cui l’immaginario legato alla realtà virtuale è
un’eloquente manifestazione.
Ma le radici selvatiche, di cui la montagna è emblema e riserva,
non potrebbero essere lasciate disseccare senza un più generale
svigorimento simbolico. Si potrebbe dire che quando i simboli cominciano
a diventare muti, le foreste cominciano a essere ridotte a riserva di
legname o ad ostacolo all’espansione cittadina e le montagne a parco di
divertimenti. È per questo che la montagna deve tornare a poter
essere vista come l’emblema dello spazio elevato
e sacro, del luogo
dell’aprirsi, reale e simbolico, di una dimensione la cui alterità
e distanza, anche fisica, dall’usuale, mostra
una dimensione di verticalità essenzialmente estranea al mondo
del nichilismo. In ogni luogo, oltre agli elementi visibili, oggetto dell’indagine
geografica e storico-artistica, vi sono elementi non
obiettivabili, non suscettibili di quantificazione scientifica,
e nondimeno simbolicamente essenziali. Nel riconoscimento della profonda
simbolicità delle manifestazioni della natura è racchiusa
ogni possibilità di armonizzazione con la morfologia ambientale
e di suo sapiente assecondamento, che si traduce sempre anche in opera
di bellezza.
La tarda modernità tende a esotizzare sempre più “la natura”,
“il selvatico”, il “tradizionale”, rescindendoli come riserve o come mere
citazioni, quando non come oggetti dell’industria culturale o turistica.
D’altra parte, però, si assiste alla diffusione di un desiderio
di appartenenza, o di “ritorno” alla “natura” che per molti versi è
un fenomeno di provenienza urbana. Ritorno dunque “sentimentale”, avrebbe
detto Schiller, e non “ingenuo”: come è ogni vero ritorno (15).
Ma già in questo è forse possibile intravedere il ridestarsi
di una memoria e l’affiorare di una consapevolezza differenziale nell’omologazione
contemporanea. Gli sviluppi in senso sempre più immateriale della
tecnica, l’uso di sistemi di comunicazione che rendano obsoleto il proliferare
di grandi strade, assieme a una chiara comprensione dei limiti da rispettare,
potrebbero rendere meno utopica e nostalgica la difesa dell’individualità
dei luoghi, e nella fattispecie della montagna, sottraendola al tempo
stesso alla prospettiva della mera esteticità o di un devastante
consumo sportivo. Ritornare, dunque, con nuova consapevolezza, nei pressi
delle radici selvatiche e rocciose della civiltà, prima che tutto
sia distrutto nichilisticamente - ossia anche per superficialità,
tracotanza o rassegnazione o appagamento nell’integrazione (16)
- per salvaguardarne almeno la memoria: primo, indispensabile, passo verso
quel riorientamento che solo potrebbe salvare la terra.
Quest’opera della memoria non è volta a fabbricare un ricordo,
né un ennesimo simulacro di un “regno perduto”: è piuttosto
un’opera di meditazione sul volto della terra a venire che procede da
uno scavo nelle rovine del presente, si immerge nella solitudo
dell’oggi come in un controluce che ne rivela i tratti essenziali, o in
un’algidezza in cui si trasfigura il crescente irrigidimento della vita
nell’ascesi della riflessione, in cui le “montagne da pascolo” del turismo
possano riassumere il sembiante di Mons Victorialis,
di luogo solstiziale dello spirito. Le radici selvatiche, le forme dell’elevatezza
e della distanza, quelle che Evola chiamava “le culminazioni dell’alpe”,
sono per noi l’ultimo punto di vista differenziale dal quale comprendere
il mondo e metterlo in prospettiva. Che si possa anche solo per un momento
sostare nel silenzio della montagna e intenderne la voce, è una
delle estreme possibilità di salvaguardia di questo mondo. Ma chi
lo potrà fare non sarà né turista, né sportivo,
né collezionista di record o di imprese estreme, ma qualcuno che
avrà compreso la legge del luogo e si sarà messo in consonanza
con essa: montanaro, pastore, boscaiolo o incamminato sulla via del Sé,
tutti attenti e responsabili della conservazione delle condizioni di appartatezza,
della costitutiva ed essenziale distanza, tutte figure del “pensare come
una montagna”, della consapevolezza che essa deve tornare segreta e salva
come un vero Montsalvat: monte della salvazione, perché montagna
della selvatichezza.
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14. R.M. Rilke, Del
paesaggio e altri scritti, tr. it. di G. Zampa,
Cederna, Milano 1949, p. 33.
15. Sul tema del viaggio e del ritorno in patria, cfr. la lettura heideggeriana
di Hölderlin (M. Heidegger, La
poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso,
Adelphi, Milano 1988).
16. Jünger ha sottolineato come il carattere devastante del nichilismo
contemporaneo provenga dal buon adattamento dell’“ultimo uomo” di nietzschiana
memoria a condizioni di vita impossibili per una civiltà “normale”
(nel senso che la Tradizione attribuisce a questo aggettivo). Cfr., ad
esempio, E. Jünger, Oltre la linea,
in M. Heidegger-E. Jünger, Oltre
la linea, tr. it. di F. Volpi e A. La Rocca,
Adelphi, Milano 1989.
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