Luisa Bonesio
Pensare come una montagna
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C. Amiet, Der
gelbe Huegel
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Pubblicato in Antonio Stragà
(a cura di), Oltre le vette. Metafore, uomini,
luoghi della montagna,
Il Poligrafo, Padova 2000 |
1. Volti di montagna
“Pensare come una montagna”: una proposizione che fa
sobbalzare ogni buon filosofo accademico o gridare allo scandalo di un
palese antiumanesimo gli zelanti neoilluministi come Luc Ferry, eppure
non estranea, nel suo spirito, al “sentire cosmico”, come l’anima “immota
e chiara come la montagna prima del meriggio”, o la “saggezza selvatica”
(1) dello Zarathustra nietzschiano.
“Pensare come una montagna”, motto del fondatore dell’ecologia profonda
Aldo Leopold, tuttavia è anche una proposizione che rischia di
non venire intesa in tutte le sue possibilità nemmeno da chi fa
della difesa dell’ambiente la sua bandiera, e nemmeno comprensibile nella
retorica di molto alpinismo. Nondimeno, credo che si debba riflettere
attentamente su questa espressione provocatoria, ben al di là dell’intenzionalità
con cui fu pronunciata.
Nell’ampiamente nota storia della “invenzione” moderna
dei paesaggi alpestri, che avviene sotto il segno congiunto dell’estetica
e degli interessi naturalistici, si nota uno strabismo nel modo di considerare
la montagna: all’interesse degli artisti, e poi dei touristi,
fa da contraltare una sorta di cecità estetica dei locali. Famosi
gli esempi dell’ascesa di Petrarca al Monte Ventoso, in cui gli abitanti
del luogo tentano ripetutamente di dissuadere il poeta e suo fratello
dall’impresa; e la testimonianza di Cézanne: “Il contadino che
vuol vendere le sue cose al mercato non ha mai visto la montagna Sainte-Victoire
[...]. Sa cosa viene seminato là o qui lungo la strada, come sarà
il tempo l’indomani, se la montagna Sainte-Victoire porterà o no
il suo cappello [...] ma che gli alberi sono verdi e che questo verde
è un albero, che questa terra è rossa, e questo detrito
rosso sono colline, credo veramente che la maggior parte non lo senta
non sapendo nulla al di fuori della propria inconsapevole inclinazione
verso ciò che è utile” (2).
Il che è molto simile a quanto accadde ai primordi della scoperta
alpinistica: furono uomini “venuti da fuori”, cittadini, stranieri a “conquistare”
quelle vette alla cui ombra vivevano le guide locali. In questa iniziale
divaricazione degli sguardi - quelli “disinteressati”, estetici e artistici,
e poi del cliché turistico da un lato, e quelli “volti all’utile”,
di quelli che il geografo Cosgrove (3)
chiamerebbe gli “insiders”, si prefigura la vicenda successiva e il destino
moderno delle montagne, e delle Alpi in particolare.
Per andare in montagna, per guardarla esteticamente e “con sentimento”,
occorre poterla “vedere”, “metterla a fuoco”. Con Petrarca - per quanto
da Rudatis la sua modesta ascesa sia potuta essere sminuita, da un punto
di vista alpinistico, come “una turlupinatura” - s’intravede il modo moderno
di guardare la natura, la curiosità di scoprire paesaggi mai visti
prima, il desiderio di godere la bellezza multiforme degli spettacoli
naturali ma anche delle proprie sensazioni al loro cospetto, indipendentemente
dalla conoscenza scientifica che potrebbe spiegarli. La scoperta della
montagna si inscrive in questa più ampia vicenda dell’affermazione
moderna della soggettività, della valorizzazione estetica del sentimento,
dell’emozione individuale. La natura da un lato è scrutata e violata
con ogni mezzo dalla scienza, assoggettata alla calcolabilità in
vista del suo sfruttamento; viene oggettivata, misurata, analizzata, tradotta
in cifre ed equazioni, ridotta a pura materialità disanimata passibile
di manipolazione; ma dall’altro, in assoluta complementarità, trova
una valorizzazione nel sentimento privato dei singoli, che si dilettano
delle sue scene, paurose o pittoresche, sublimi o idilliache, in cui proiettare
le proprie sensazioni e i propri stati d’animo. Nella grande stagione
iniziale dell’estetica settecentesca come nuova disciplina filosofica,
sapere di ciò di cui non si può dare spiegazione concettuale,
conoscenza di un piacere che rischia sempre di chiudersi nel solipsismo,
nella contemplazione solitaria, al pari di tutti gli aspetti disumani
e selvaggi della natura, non ancora addomesticati dalla civiltà,
la montagna è la grande protagonista del moderno sentimento del
paesaggio.
Prima che Paccard e Balmat aprissero la via alle spedizioni scientifiche
di Horace Bénédict de Saussure, e poi alle innumerevoli
ascensioni ed escursioni, è proprio l’estetica a “inventare” la
via alla montagna, nella forma delle poetiche del sublime. La natura impervia,
se non ostile e minacciosa, dei monti esercita una sua specifica fascinazione,
analoga a quella dell’oceano in tempesta, di uno spettacolo di grandezza
e di potenza che eccede i limiti umani. La smisuratezza della montagna
intimorisce, ma al tempo stesso fa piacevolmente sperimentare all’uomo
la propria capacità di tradurre in godimento estetico, grazie alla
sensibilità e alla cultura, qualsiasi aspetto della natura, anche
il più terribile e minaccioso, affermando così, in ultima
istanza, ancora una volta la propria superiorità. Ed è anche,
se non nelle intenzioni dei filosofi e degli artisti settecenteschi, certamente
negli effetti storici, un modo per sottomettere ancora una volta la natura
alla misura umana, nei suoi aspetti più soggettivistici e idiosincratici,
riducendola a semplice correlato emotivo o a occasione per provare sempre
nuove situazioni. E’ da notare come qui sia la radice prima, anche se
ormai inconsapevole, della ricerca di quell’“estremo” che caratterizza
così fortemente un approccio sempre più in voga alla montagna.
Quando la via alla montagna è così aperta, dalla letteratura
e dalle arti, su di essa comincia a focalizzarsi l’attenzione e la curiosità
di un pubblico che, mutando i tempi, da colto e poco numeroso, assume
dimensioni sempre maggiori fino a diventare quello di massa dei giorni
nostri. Parallelamente all’invenzione (4)
estetica della montagna, ne avviene un’altra, non meno rilevante, di ordine
scientifico e naturalistico: mi limito a ricordare le menzionate spedizioni
pionieristiche di Saussure sul Monte Bianco, e in seguito i vari viaggi
di Alessandro Volta nelle Alpi svizzere. La cultura occidentale torna
in tal modo a guardare le montagne, iscrivendole in un sistema di rappresentazioni
che le correla alla soggettività, al sentire del singolo: così
che, quando si daranno le condizioni sociali ed economiche, oltre che
ideologiche, per un consumo “di massa” della natura come paesaggio e luogo
di salubrità, il turismo non farà che usare, ridotte a slogan,
le parole dell’estetica del pittoresco e del sublime, degradando a kitsch
la natura selvaggia e retorizzando, spesso fino al caricaturale, le virtù
salutari del clima. Oggi noi siamo in grado di cogliere appieno gli effetti
di questa vicenda di uso “estetico” delle montagne, con le differenze
innegabili che esistono fra singole regioni o località. A questa
inscrizione nella logica cittadina come spazio turistico o sportivo, si
aggiunge una più generale inscrizione - che non è sempre
forzosa, ma spesso auspicata dagli stessi abitanti - nella grande logica
globale, mediante vie di comunicazione, trasporto di energia, assedio
dell’industria e dei suoi rifiuti. Contro i fianchi delle montagne battono
sempre più insistentemente le mareggiate dell’industrialismo, della
logica di massa, dell’assalto a uno degli ultimi territori differenziati
del continente europeo, che fino a qualche generazione fa era rimasto
in un equilibrio intatto, di tipo preistorico (5).
Se la codificazione estetica delle montagne è stata l’occasione
per estrarle da quell’aura di leggendarie paure e di diffidente tenuta
a distanza, essa, però, le ha inevitabilmente “tradotte” in un
sistema di rappresentazioni in cui esse non “parlano”, né tantomeno
“pensano”, né sfiora la mente dell’homo tecnicus
la preoccupazione di comprendere che cosa possa voler dire “pensare” come
loro. Per molti versi, le montagne “sono” così come la ha costruite
un’operazione immaginale che ha l’età della modernità: imponenti,
sublimi, terribili, minacciose, affascinanti... Chi potrebbe resistere
alla tentazione di appropriarsene, almeno in immagine, o per impresa sportiva,
o per partecipazione al grande rito collettivo delle vacanze? Il valore
estetico finisce con il diventare sempre più un valore economico
e del consumo, cui nulla sembra potersi sottrarre nel nostro mondo, e
quindi finisce con l’essersi trasformato, da sguardo alla gloria delle
montagne in strumento del loro stravolgimento. Non si guardano più
i monti per intenderne il nomos, non se ne
contempla il volto per imparare a conoscerlo e ad accordarsi con esso,
ma dei monti e delle valli si fanno scenari e pretesti di svago o di titanismi.
Ma quei locali che ai cittadini apparivano così indifferenti al
bello, perché gravati dal duro e sapiente compito del sopravvivere
in montagna, e che invece ne erano stati i consapevoli partners nel cooperare
alla formazione di quei paesaggi tanto ambiti, forse avevano consapevolezza
di cosa potrebbe voler dire “pensare come una montagna”: là dove
la distruzione moderna, l’abbandono, lo stravolgimento non hanno agito
del tutto, là si vede (ammesso che si sia ancora in grado) come
quella lentezza, quell’immobilità tanto sbeffeggiata dai contemporanei,
sia stata una delle cifre più profonde dell’abitare la montagna.
Altro ritmo, altro tempo in cui si salvaguardava (e si esprimeva) l’estraneità
di questi luoghi alla logica del novum, del
consumo, dell’accelerazione: niente di meno futuristico delle montagne,
con buona pace di varie utopie architettoniche (da Viollet-le-Duc a Bruno
Taut) che hanno maggior parentela con l’opprimente assurdità della
geometria aliena delle Montagne della follia
di H.P. Lovecraft (6) che
con un pensiero consono ai luoghi, una sapienza della località,
una consapevolezza del genius loci. Domandarsi
se gli attuali abitanti delle montagne abbiano conservato questa sapienza
dell’equilibrio con il proprio luogo è altrettanto importante dell’interrogarsi
sulle modalità di accostarsi ai monti da parte dei turisti e degli
appassionati.
pagine 1 - 2
- 3
1. Cfr. L. Bonesio, La
saggezza selvatica di Zarathustra, “Letteratura
Tradizione”, 5, 1998.
2. Cit. in J. Ritter, Paesaggio. Uomo
e natura nell’età moderna, a cura di M.
Venturi Ferriolo, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 68-69.
3. D. Cosgrove, Realtà sociali
e paesaggio simbolico, a cura di C. Copeta, Unicopli,
Milano 1990.
4. Per il termine “invenzione”, nella sua duplice accezione di scoperta
e produzione di qualcosa che non c'era, cfr. Ph. Joutard, L'invenzione
del Monte Bianco, tr. it. di P. Crivellaro, Einaudi,
Torino 1993.
5. Cfr. F. Fedele, Inventare le Alpi:
archeologie, abitanti, identità, in Appartenenza
e località: l’uomo e il territorio, a
cura di L. Bonesio, SEB, Milano 1996.
6. “A poco a poco, però, (le cime) si innalzarono minacciose nel
cielo occidentale permettendoci di distinguere diverse cime nude, squallide
e nerastre e di cogliere lo strano senso di fantastico che ispiravano
viste così nella luce rossastra dell’Antartico con lo sfondo suggestivo
di nuvole iridescenti di polvere di ghiaccio. Da quello spettacolo derivava
un senso di stupenda segretezza e di potenziale rivelazione. Era come
se queste cuspidi da incubo fungessero da piloni di uno spaventoso ingresso
nelle sfere proibite dei sogni, nei complessi golfi del passato remoto,
dello spazio e dell’ultradimensionalità” (H.P. Lovecraft, Le
montagne della follia, tr. it. di G. De Luca,
Sugarco, Milano 1983, p. 39). “L’effetto era quello di una città
ciclopica di architettura ignota all’uomo o all’immaginazione umana, con
un vasto aggregato di costruzioni nere come la notte costruite con mostruose
perversioni delle leggi geometriche. C’erano coni tronchi, talvolta disposti
a terrazza o scanalati, sormontati da alti steli cilindrici, che qua e
là si slargavano a bulbo e spesso terminavano in una serie di dischi
dentellati e assottigliantisi...” (Ivi,
pp. 40-41). La descrizione della città in rovina sulle montagne
antartiche prosegue con tutti i dettagli di “sagome deformate da un’odiosità
ancora maggiore” (Ibidem).
Montagna
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