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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

La fine di tutte le strade.
L'esotismo imploso di Annemarie Schwarzenbach

G. Segantini, Le cattive madri
"Hesperos", 1, 2001


1. Una lontananza intransitiva

Sono i nomi segnati sulle carte geografiche a chiamare, con il loro fascino, al viaggio, quasi per potere constatare che esistono. E’ un dubbio sulla realtà che porta a esperire la lontananza, a “raggiungere i nomi, toccare i muri e camminare per i vicoli, sentire risuonare i miei passi sul selciato e battere il mio cuore”. Ed è questo struggente desiderio che spinge verso l’ignoto, a esporsi ad esso, fino a diventare estranei a se stessi: “Ora ero già sull’antica rotta dei popoli, sulla strada reale degli Achemenidi, sulla cima del passo Peitak. Lontano dai familiari conforti, solo. L’estraneità mi toccava, non mi riconoscevo più” (6). Un’identica estraneità porta sulle rotte dell’allontanamento; ma esso si risolve in un’impossibilità di direzione, mancando l’orizzonte nel quale situarsi, e la domanda “verso dove?” trova una risposta crudele nel chiuso e sublime orizzonte della valle dove il mondo giunge alla fine, dove l’interrogativo su ciò che esiste fuori di se stessi, l’ansia di dare un volto ai nomi della lontananza, di vedere brillare “le cupole dorate nella luce della sera”, “alla fine dello spazio, alla fine del tempo” (7), trova risposta nell’impervietà intransitabile che ne mostra la vanità: “La lontananza non esiste perché non possiamo salire più in alto, non abbastanza in alto per guardare oltre la nostra valle e oltre le rocce e i pendii che la delimitano” (8). E’ anche l’impossibilità di distinguere il cielo dalla terra che ha bruciato con la vampa infuocata del sole a rendere impossibile l’orientamento, così come la smisuratezza del paesaggio si risolve in sublimità annichilente e distruttiva, l’eccesso di grandezza non dà riparo, si sottrae ad ogni misura umana, elude ogni calcolo: “Le rocce mi vennero incontro abbattendosi su di me all’improvviso, i fiumi stavano i agguato con il lento impeto delle loro masse di acqua gialle d’argilla, pietre grigie, basalto nel blu, erano dolorosamente desolate, le pianure non erano nemmeno ostili, solo troppo grandi” (9).

E’ “la mortale grandezza”, sono “le cose sublimi e luttuose della Persia”, sono la landa e il cielo troppo grandi in cui si consuma l’idoleggiamento estetico e l’ansia esotica dell’Occidente, dove finisce l’illusione di ritrovare un’altra grandezza, la selvaggia desolazione, la malia delle antiche rovine, la vastità nostalgica dei deserti. In realtà quella bellezza mostra la sua terribilità ancora più rapidamente che altrove, e il “sentire forti emozioni” viene soppiantato da “questa terra straniera [che] prende il sopravvento su di noi e ci rende estranei al nostro stesso cuore” (10). Fuggendo dall’Europa che cela dentro di sé il deserto, gli occhi non incontrano che distese inospitali “giallo lebbra”, soli implacabili, venti assordanti, l’incessante franare dei pendii, un cielo troppo alto e bianco, immobile, inanimato, metallico come una cupola dorata o un tetto di piombo: “Qui non sono più in balia dei miei antichi desideri, non mi estenuo più sulle vie dell’incanto, non chiedo più teste di toro coronate e gigli d’acqua, non sello più il cavallo e non invio più falchi viaggiatori. [....] Mi accorgo dell’orrore di appartenere ancora alla vita, senza patria, senza pietà, in balia di questo paese, delle sue distese sotto la luna, delle sue coste, dove si sono arenate le navi, della sua desolazione, dei suoi giardini senza vento” (11). Sublime che schiaccia con la sua vuota smisuratezza, con la sua inesorabile inospitalità, con l’esplicita disumanità che rende anche qui impossibile un consistere e costringe a un’incessante viandanza.

Così non è certo casuale che il protagonista di La valle felice, proprio come l’autrice durante il suo primo viaggio in Persia, lavori come archeologo, professione emblematica di una civilizzazione tarda e affascinata dall’arcaico, ossessionata della memoria che non ha più, esteticamente nostalgica e lacerata dalla consapevolezza delle proprie radici perdute. L’archeologia, la restituzione delle origini sepolte diventa un pretesto per la fuga, l’alibi per la mancanza di una “sana” costruttività che l’epoca richiede, per inoltrarsi su una strada ignota e verso una conoscenza incerta, senza nemmeno più la consolazione della visione auratica dell’antico, dello “scendere attraverso gli strati dei secoli, gli strati di terracotta e di argilla, i cocci, le case crollate, i templi abbattuti, le tombe rese alla terra, giù, fino alle feste da lungo tempo finite, i culti dimenticati, i trionfi celebrati e caduti nell’oblio, gli incendi, i terremoti e le resurrezioni - giù fino ai pozzi più profondi” (12), perché quello che si dà a vedere, tradendo il desiderio appassionato e nostalgico che conduce su strade perdute (13), è ormai solo “la miseria delle rovine sgretolate” (14). Come lo spazio, anche il tempo è privo di profondità, e i resti riportati alla luce sono oggetto di un processo di lavoro da cui ogni avventurosità schliemanniana è sparita. Al pari della lontananza spaziale, anche quella temporale è intransitiva, implode su se stessa, impedendo il ricordo e il progetto, dissolvendo l’identità personale e la memoria storica, e così cancellando e ingarbugliando le strade del mondo e disperdendo nell’indefinitezza l’origine: “Si dovrebbe poter ricordare. Si dovrebbe poter ritornare indietro, passo dopo passo, e allora forse si ritroverebbe l’inizio. Si dovrebbero evocare dei nomi, richiamare dei volti, risvegliare dal sonno le città. Si dovrebbero inviare dei suonatori di tromba davanti alle mura e alle porte di Baghdad, Gerico, Hama, Beirut, Aleppo, Latakia, Gerusalemme fino a farle cadere. Ritornare fino alla torre di Ur, la ziqqurat, la possente piramide a gradoni che ho visto sorgere dal deserto all’alba [...] Sono i ricordi, sto sognando, cerco nel sogno? Quale fatica, quale immane sforzo, gettati su una pista che conduce in un mare di polvere gialla!” (15).

In un modo simile a quello ch’era stato di Rilke nei Quaderni di Malte, l’evidenza delle cose si sfa, venendo meno la certezza e solidità dell’io; occorre allora imparare a vedere (16), svuotandosi di sé, dei propri desideri, delle ansie, in una “spoliazione solitaria” che possa trasmutarsi in un “dono magico che permetteva di entrare in rapporto con quelle immagini, di assorbirne insieme i colori, le forme e le misure, insieme il loro movimento e la loro stasi, il loro contenuto di gioia o di dolore, il loro silenzio, il loro linguaggio, il loro canto, la loro schiacciante vicinanza, la loro intoccabile lontananza e i ricordi che da esse scaturivano, i presentimenti che ne nascevano” (17). Ed è tutto nel segno di una paradossale ascesi il viaggio verso la “fine del mondo”, altro nome della “valle felice”: è per lasciarsi alle spalle la patria, l’Europa, la famiglia, le usanze, se stessa, per accedere all’impossibile verità delle cose e di sé, che l’autrice si offre in una totale esposizione, si rimette alla più completa spoliazione, fino a diventare assolutamente inerme, “una delle più deboli”. Il mettersi per via procede da una volontà di liberazione (18), ma anche dal desiderio di dare un volto ai nomi delle carte geografiche che facevano sognare da bambini che si sfalda sotto il peso insostenibile della grandezza della realtà: “Là, la striscia gialla all’orizzonte, sul cielo che si raffredda - quale paesaggio riceve le sue ultime fiamme? Prima ancora che possa coglierlo con lo sguardo, sprofonderà per sempre. E le navi sul fondo del mare, le città sommerse, i palazzi sotto la sabbia del deserto - la mia impotenza mi soffoca! E inoperoso mi lascio sfuggire il tempo - perdo ogni ora, con la sua esperienza unica” (19). Così l’ansia del vedere si capovolge nell’abbacinamento che deriva da una sensitività portata ai suoi estremi limiti, indipendentemente dall’uso di droghe che non fanno che esasperarne l’ossessività e lo scacco: il desiderio di “toccare” la realtà delle cose si capovolge nell’insopportabilità del mondo sulla propria sovraesposta sensibilità, proprio come la volontà del mettersi in viaggio non incontra che naufragi e arenamenti: “Sapevo che in questo stato di ricettività nessun grido d’uccello sopra il Mar Caspio mi sarebbe sfuggito e che la sua roca selvatichezza, il suo lamento crescente, il suo disperdersi nel vento mi avrebbe richiamato la sperduta malinconia di quella costa battuta dal vento [...]. Sì, sapevo che non vedevo solo immagini, che non udivo solo suoni e li raccoglievo e li disponevo a mio piacimento, ma che tutto ciò mi apparteneva, in maniera assoluta, che tra me e il mondo visibile, percepibile, sensibile, tangibile non vi era più nessun ostacolo. Ma non sapevo più come proteggermi - i torrenti mi attraversavano e toccavano il mio cuore” (20).


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Note:


6 . A. Schwarzenbach, La valle felice, cit., p. 37.
7. Ivi, p. 16.
8.
Ivi, p. 14.
9.
Ivi, p. 80.
10. A. Schwarzenbach,
Morte in Persia, cit., p. 71.
11.
Ivi, p. 97.
12.
Ivi, p. 50.
13. “Uno sguardo sulla pianura gialla di polvere, ai cui confini riposano ancora le montagne come navi arenate. Naqsh-e-Rustam: alte pareti di roccia, la dimora di Zoroastro, le camere mortuarie dei re - portatori di tributi, portatori di fiaccole, bufali, leoni, cani, dromedari e cinghiali sono spettri tra le pietre grigie - sui merli i bracieri spenti, e sopra solo il cielo. Vedere tutto ancora una volta! [...] Ritornare indietro una volta ancora...” (ivi, p. 33).
14. Ivi, p. 91.
15. Ivi, p. 30.
16. Per il tema rilkiano dell’“imparare a vedere”, cfr. L. Bonesio, “Visione e metamorfosi dello spazio”, in Il sublime e lo spazio. Ricerca sul simbolismo dell’ideale estetico, Angeli, Milano 1985.
17. Ivi, pp. 81-82.
18. “Volevo essere leggero: avevo forse davanti a me una strada così lunga? E nessuno scopo! Città che non erano state costruite per me, torri senza un saluto, preghiere recitate in lingue straniere - nessuna casa aperta per accogliermi, nessuna lampada sotto il portone del cortile per indicarmi la via del ritorno” (ivi, p. 44).
19. Ivi, p. 69.
20. Ivi, p. 82.