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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Spaesamento, perdita di luogo e rilocalizzazione dell’identità culturale

L’orizzonte negativo in cui di fatto si è mossa la progettazione contemporanea è quello oscillante tra le ragioni "oggettive" del mondo tecnoeconomico e l’irrelatezza soggettivistica di un’idea residenziale a sua volta divisa tra legge del numero ed enfatizzazione del proprio status (economico, estetico), producendo luoghi senza qualità estetica, senza memoria e dunque senza comunità. È mancata quasi sempre la comprensione del senso del paesaggio, che invece possedevano le comunità tradizionali, ossia che ogni luogo, anche nei suoi aspetti "naturali", nella sua morfologia, nella sua ricchezza estetica e simbolica, non è un bene di cui appropriarsi, ma una comunità cui appartenere, di cui condividere il linguaggio. Al tentativo dell’assimilazione nei codici di una pianificazione astratta, e omologante, che azzera le specificità e le salienze singolari di un luogo nella mera performatività del rendimento economico o della realizzazione tecnologica fine a se stessa, le fisionomie territoriali, immagine visibile di tradizione e identità culturali, vengono cancellate fino all’invisibilità, trasformandosi in lembi di territorio che diventano a tutti gli effetti estensioni periferiche urbane, non solo nella concezione costruttiva, ma soprattutto nella impossibilità di costituirsi in luoghi per una comunità, essendo soltanto spazi inerti del transito, del sonno o della vacanza, aggregazioni morte di edifici che non potranno mai costituire luogo di un abitare.

Se è forse corretto dubitare dell’ideologia che proietta in un intatto passato l’ideale della perfezione, nondimeno, come scriveva un filosofo certo non sospettabile di passatismo, "fintanto che il progresso deformato dall’utilitarismo violenta la superficie della terra, non si lascia completamente tacitare, nonostante tutte le dimostrazioni in contrario, la sensazione che ciò che è al di qua della tendenza di sviluppo e anteriore ad essa è, nella sua arretratezza, più umano e migliore": è quel che Adorno chiama, significativamente, "un momento di diritto correttivo", che, sospendendo l’adesione al culto del "progresso", consente di gettare uno sguardo distaccato e consapevole sulla distruttività dell’epoca. Liquidare semplicemente il retaggio del passato perché la sua conservazione sarebbe reazionaria o patetica di fronte alle adulte ragioni dell’economico, è nichilistico e autolesionistico. Non è possibile l’abitare in un mondo accettabile senza continuità di forme e tradizioni, né, tantomeno, pensare che esso possa possedere significati estetici, che non siano cosmetizzazione commerciale, in assenza di consapevolezza culturale: "senza memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza", e al massimo la natura può essere "parco naturale e alibi".

Per farlo, è necessario arrivare a considerare la "architettura" propria (appropriata) di un luogo, ossia quella di chi, abitandovi da tempi immemorabili ne ha distillato una sapienza estetica consequenziale e un’avvedutezza nell’uso e nel mantenimento delle risorse, anche simboliche e immateriali. Il rischio è quello di scivolare nella retorica della baita o della casa colonica e di un’integrità di vita e di armonia con la natura giocata in una troppo facile contrapposizione alla disincantata sventatezza moderna, o di favorire, per l’appunto, la museificazione di quanto ancora c’è di vivo delle tradizioni abitative locali o la loro ulteriore, e magari più sottilmente insidiosa, commercializzazione. "Ma se per tale ragione alla gioia che ci dà ogni vecchio muricciolo, ogni casamento medievale è mescolata una cattiva coscienza, nondimeno quella gioia sopravvive alla scoperta che la rende sospetta": quasi un senso di sollievo per ciò che ancora non è andato distrutto, ossia lo stile di costruzione proprio del luogo, che anche in frammenti diruti, ne reca l’inconfondibile impronta: non tanto in quanto autoctono e originale, ma in quanto modello che con una relativa stabilità, con il suo ben definito repertorio di varianti regionali, è stato il linguaggio condiviso di tutta una cultura oppure di territori molto vasti accomunati da medesime caratteristiche geografiche e culturali (come per esempio è accaduto - caso limite - nell’ecumene alpina, relativamente insensibile a scansioni storiche, a divisioni nazionali o politiche, mondo omogeneo e trasversale nel cuore dell’Europa). Le costruzioni di questo genere di architettura anonima e spesso comunitaria corrispondevano innanzitutto non a dei "residenti" o turisti, ma ad abitanti reali, che dal territorio traevano sostentamento, la cui vita era resa possibile dall’equilibrio e dalla conservazione del territorio nei suoi tratti propri e specifici; dunque per i quali "abitare" e "costruire" era tutt’uno che "produrre territorio" o "salvaguardare" il luogo.

 

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