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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Spaesamento, perdita di luogo e rilocalizzazione dell’identità culturale

1. Scompaginazione dei luoghi e perdita dell’identità

La modernità scardina il senso dei luoghi, il loro orientamento - spaziale e simbolico -, perché il suo pensiero dispone e misura estensioni, senza soffermarsi sugli aspetti qualitativi; perché l’accelerando è il suo "tempo" mentre il territorio è tempo lungo, sedimentazione, tendenziale incompatibilità strutturale con il mutamento troppo rapido; perché l’innovazione è la sua ragion d’essere mentre niente più di alcuni territori (p. es. la montagna) è strutturalmente conservatore; perché la massa è l’anonimità sradicata, secolarizzata e cosmopolita del denaro mentre la cultura tradizionale dei luoghi è stata soprattutto senso comunitario, avvedutezza, pietas, adesione al genius loci. Retrospettivamente si potrebbe dire che è stato grazie all’accettazione del limite del territorio (organico e ciclico naturale) che le culture hanno realizzato la propria specifica interpretazione delle possibilità dei luoghi. Inevitabilmente, quando la strapotenza della modernità urbana finisce con il cancellare i tratti millenari delle culture locali, e la progettazione a tavolino dell’architettura e dell’ingegneria sostituiscono nel ruolo di costruttori gli abitanti, che avevano plasmato il territorio in un’accorta alleanza secolare con la natura, il risultato è l’aspazialità, ossia lo slegamento, reso possibile dalla tecnica, della specificità dei caratteri del luogo dalla funzione cui viene destinato in un’ottica di sfruttamento economico, che ne accentua la dipendenza dai centri economici, decisionali o politici, dall’utilizzazione da parte di logiche esogene, dotate di simboli, storia, obiettivi e stili diversi. La "crisi" del tessuto territoriale altro non è che la "caduta di validità di strutture, di relative capacità di lettura e inserzione nella realtà, nei flessi ciclici di trapasso e scala economica".

Quello stadio di nuova consapevolezza civile, che ormai quarant’anni fa invocava Saverio Muratori, sembra incontrare ancora molti ostacoli sul proprio cammino. Eppure solo da una lettura consapevole del territorio locale, nelle sue interconnessioni globali, può essere compresa la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria (oltre che ecologica) di un modo nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizionali, memoriali, differenziali, con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di evitare il degrado, l’abbandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria dimora. "Il territorio è una struttura essenzialmente unitaria, concreta, totale e univoca; che tuttavia, appunto perché è insieme unitaria, cioè permanente, e concreta, cioè polivalente, non può che essere stabile e crescente, cioè conservativa e accumulativa; e che appunto per essere insieme totale, cioè molteplice, e univoca, cioè individuale, non può che essere ciclica e asintotica, cioè integrativa e confermativa di se stessa all’infinito". Se ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con il nomos dei luoghi per poter fiorire e mantenersi, la contemporaneità mercantile e speculativa, con una caratteristica miopia che fa il paio con la sua intrinseca ignoranza, anche in fatto di gusti, finisce con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo misconoscimento dell’idea stessa di "conservazione", il cui solo suono, alle nostre orecchie diveniristiche e progressistiche, appare blasfemo e impronunciabile. Eppure, "conservare" significa tenere presso di sé (cum-serbare), preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione, ciò che si ha a cuore, dunque con un’intensità che può concernere solo ciò che davvero conta per noi: tutto il contrario dell’accezione freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più risuona alle nostre orecchie questa parola, e che presuppone un automatico disinteresse e una subitanea dimenticanza per quanto, essendo stato catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta che lo si voglia. Una paradossale forma di conservazione, quella della modernità, l’approntare istituzioni che consentano la buona coscienza dell’oblio e della distruzione, siano esse musei o parchi a tema, oppure "riserve" etnografiche di vario tipo, con tanto di "mediatori culturali". Un illusorio trattenere dalla scomparsa definitiva quei mondi che lo stesso Occidente - dentro e fuori di sé - ha incessantemente sfigurato e cancellato; non a causa di un generico processo di inevitabile entropia ("Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui") che dalla perfezione dell’origine porterebbe ineluttabilmente il mondo alla sua fine, ad una disintegrazione concepita in termini meccanici o energetici, bensì in una precisa destinalità connessa all’affermazione della cultura dell’illimite faustiano, che ancora oggi, in quasi ogni atto o scelta le nostre società esprimono.

La modernità che svelle con la potenza tecnica omologante il nomos dei luoghi, cultura da cosmopoli, di sradicamento e meticciato, di livellamento ed elementarizzazione, non può generare un’architettura abitativa che non sia l’edilizia anonima, la macchina per abitare, la perdita di un nesso significativo con il luogo e la natura, o il titanismo che attira su di sé il fulmine della distruzione. Ed è la profonda sconnessione rispetto alla fisionomia dei luoghi il tratto che maggiormente caratterizza l’architettura abitativa realizzata negli ultimi decenni in zone particolarmente "sensibili" per configurazione paesaggistica e culturale (montagna, territori a forte identità estetica e anche turistica): profondamente impensato - o forse impensabile per il moderno - è il senso dell’abitare un luogo, ogni volta singolare e inconfondibile, non solo per i suoi caratteri "naturali" o "fisici", ma ancor prima per i tratti simbolici, culturali e comunitari che vi sono impressi. È l’identità dei luoghi a essere misconosciuta e violata: e come ormai si riconosce da più parti, questi reiterati attacchi alla riconoscibilità delle fisionomie locali inferti da un’edilizia proterva o sciatta, guidata solo dalla logica del denaro o della sua esibizione, finiscono col distruggere il senso dell’appartenenza, aprendo le porte ad ogni sorta di ulteriore degrado. È la storia di molti centri dotati un nobile passato storico e architettonico, travolti da un apparentemente inarrestabile involgarimento delle forme, della vita, e dunque da un progressivo deperimento ambientale, che mostra eloquentemente come può entrare in possesso del suo patrimonio solo chi è capace di conservazione e di memoria. Solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è colui il quale è dotato di più lunga memoria, chi, si potrebbe dire, ha le radici più profonde e ramificate, saldamente piantate nel terreno delle sue tradizioni; a differenza di quanto ha pensato la cultura faustiana dell’Occidente, non è andando-via, nel nomadismo senza riferimenti né orizzonti, nella scelta "oceanica" dell’illimitato e immisurabile che si trova la promessa dell’a-venire, bensì in una rinnovata consapevolezza del proprio orizzonte nella sua ineliminabile embricazione con gli altri orizzonti, accessibili uno alla volta, nella propria specificità: non quindi nella "grande discarica" dell’omologazione, dove nel mercato si trovano i detriti e le caricature di tutte le culture del mondo.

 

*L'immagine accanto al titolo è lo stemma della città di Zernez in Bassa Engadina.

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