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1. L’archivio Solitamente la memoria viene invocata per esorcizzare la distanza, per colmare una lacuna, offrendo un rassicurante ancoraggio nei confronti di tutto quanto ci sembra irreparabilmente perduto. Di fronte alla dolorosa esperienza dell’irreversibilità del tempo, la possibilità di ricordare si mostra come compensativo espediente per trattenere, se non proprio per far continuare a vivere, tutto quanto è irrimediabilmente trascorso, passato, finito. In quella pervicace, quanto ovvia, concezione lineare del tempo – in virtù della quale passato, presente e futuro trascorrono incessantemente l’uno nell’altro, costituendo quel continuum che chiamiamo la Storia – pur nell’irrevocabilità del passato, tuttavia è affermata la convinzione di una durata senza interruzioni, di un fluire senza arresti, senza fratture, senza cesure o intervalli, senza lacune, come se l’oblio, questa polvere impalpabile che lentamente si deposita sugli eventi, non fosse altro che una patina, quasi una sottile pellicola che si può sempre rimuovere e non quel potente corrosivo che sgretola e incenerisce anche i ricordi più indistruttibili. È di questa illusione, giunta, nei nostri giorni, fino alla tracotanza, che si nutre una certa concezione ‘volgare’ del tempo e della memoria. Artificiale o virtuale, questa memoria – della quale sono dotate ormai la maggior parte delle sofisticate apparecchiature di cui facciamo uso nell’era dell’informatica e del digitale – si fonda, in ultima istanza, sull’idea di archivio.
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