“Non le cime, non le difficoltà, non il 
        record mi interessano, ma quello che succede 
        all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà 
        la risposta”. Il libro in questione è Meditazioni 
        delle Vette di Julius Evola, mentre l’autore della frase, 
        che compare sulla copertina del volume, è Reinhold Messner. Basterebbero 
        queste uniche notazioni per farci comprendere il rilievo che il testo 
        evoliano assume sia per gli amanti della montagna che per gli studiosi 
        e i lettori del grande pensatore della Tradizione. 
         
        Meditazioni delle Vette comparve nel 1974 
        per i tipi delle Edizioni del Tridente, grazie ad una felice intuizione 
        di Renato del Ponte, il quale riunì in volume, col consenso dell’autore, 
        un certo numero di articoli sull’alpinismo e sulla montagna scritti 
        da Evola tra il 1930 e il 1942 e usciti in varie riviste dell’epoca. 
        L’idea di del Ponte ebbe un meritato successo di pubblico, testimoniato 
        dalle numerose edizioni che si susseguirono negli anni, sia in Italia 
        che all’estero: si pensi che, andate rapidamente esaurite le prime 
        due, le esigenze, chiamiamole così, del mercato portarono addirittura 
        ad una ristampa abusiva, un’edizione ‘pirata’ insomma. 
        Quella appena uscita, inserita nella collana ‘Opere di Julius Evola’ 
        delle Edizioni Mediterranee a cura di Gianfranco de Turris (pp. 211, Euro 
        19,50) è addirittura la quinta edizione, ampliata rispetto alla 
        quarta del 1997 di tre scritti, cosicchè il numero complessivo 
        dei testi presenti nell’antologia è adesso di 22. 
         
        La novità più rilevante in questa riproposizione della raccolta 
        evoliana è tuttavia, a nostro parere, il saggio introduttivo di 
        Luisa Bonesio, docente di Estetica all’Università di Pavia, 
        e sicuramente nota ai lettori delle pagine culturali del Secolo 
        d’Italia come la più accreditata studiosa in Italia 
        del pensiero di Ernst Jünger. Il suo intervento, L’ultima 
        vetta: Evola e le montagne della Tradizione, assurge sicuramente 
        a contributo fondamentale per la comprensione del particolare ed essenziale 
        rapporto che legava l’autore di Rivolta contro 
        il mondo moderno alla montagna. 
         
        Ma ritorniamo a Messner, il quale, lungi dall’essere qui solamente 
        il compilatore della frase citata all’inizio, può offrire 
        una via d’accesso per comprendere il significato, niente affatto 
        marginale, che l’alpe assume nel pensiero e nell’esperienza 
        di Julius Evola. Nella nota introduttiva al volume, infatti, Renato del 
        Ponte rileva come l’alpinismo evoliano sia da considerare “elitario 
        [e] assai differente dagli esibizionismi o dai tecnicismi oggi di moda, 
        nonostante molte resipiscenze e il recente conforto di alcune notevolissime 
        eccezioni”. Nell’edizione del 1986 in nostro possesso questo 
        passo veniva accompagnato da una nota a piè di pagina - scomparsa 
        nella attuale versione fresca di stampa - che chiariva come la più 
        luminosa delle eccezioni fosse rappresentata proprio da Reinhold Messner, 
        definito non solo “il più grande alpinista vivente”, 
        ma anche, e soprattutto, “il tipo di alpinista ideale prefigurato 
        da Evola”. A questo punto si può ben comprendere come la 
        frase dello scalatore altoatesino non sia affatto fuori luogo in un contesto 
        come quello del libro che stiamo trattando, esortandoci, al contrario, 
        a interrogarci sul significato che viene ad assumere l’esperienza 
        della montagna nell’opera evoliana. Significato che è del 
        tutto spirituale, mille miglia lontano da ogni ossessione di tipo sportivo 
        e superomistico o, peggio ancora, di stampo turistico-massificante. L’andare 
        per i monti è infatti per Evola soprattutto liberazione, è 
        “una catarsi, uno svegliarsi, un rinascere in qualcosa di trascendente, 
        di divino”. Affermazione, questa, che riecheggia il celebre detto 
        del saggio tibetano Milarepa, per il quale “andare per montagne 
        selvagge, è una via alla liberazione”: non a caso Evola traduce 
        e commenta in Meditazioni delle Vette “Il 
        canto della gioia” da cui è tratta tale citazione. 
         
        Alpinismo, quindi, come via per il superamento dei limiti della condizione 
        umana, come “compimento interiore” e “intima trasfigurazione” 
        nella forma dell’ azione e della contemplazione, che divengono “due 
        elementi inseparabili di un tutto”. Un’ascesa, pertanto, che 
        si trasforma in ascesi, in eroica ascesi. Espressione, l’alpinismo, 
        di una “volontà eroica [che] cerca altri sbocchi oltre la 
        rete degli interessi pratici, delle passioni e delle cupidigie che ogni 
        giorno si serra sempre di più”. E’, ancora, fuga dalle 
        bassure della quotidianità, ricerca del contatto con l’elementare, 
        il primordiale, l’originario, il non addomesticato che si disvela 
        e rileva nelle altezze inviolate, nella tormentata purezza dei ghiacciai 
        alpini, nell’incontaminata asprezza delle giogaie montane. Ove, 
        appunto, l’uomo differenziato si ricongiunge alla sua “natura 
        umana più profonda, che è quella stessa delle forze elementari 
        della terra, la cui purità possente e calma si fissa nelle vette 
        ghiacciate e lucenti”. L’esperienza dell’alpe, quindi, 
        non si riduce in Evola a mero ‘contemplativismo’ estetico-borghese 
        di derivazione romantica – cosa ben diversa, comunque, dal senso 
        eroico della contemplazione – né, tantomeno, a lotta superomistica 
        per la conquista della montagna. Come ben rileva Luisa Bonesio nel citato 
        saggio introduttivo, non si tratta tanto, nell’alpinismo metafisico 
        informato ai principii della Tradizione, di “<< vincere>> 
        la montagna, quanto se stessi”. E questa vittoria su se stessi trova 
        per Evola il suo ambiente più adatto in quel “mondo dell’alta 
        montagna [che] va a parlare [alla] eredità primordiale” dell’uomo 
        differenziato, facendo “emergere lentamente [in lui] il senso di 
        quella libertà più che umana, che non significa evasione, 
        ma è principio di una forza pura” che si realizza nel “lucido 
        dominio della parte irrazionale dell’essere umano”. 
         
        Le terre alte e le vette che si stagliano all’orizzonte come una 
        visione simbolica appaiono pertanto essere un mondo ‘altro’ 
        rispetto alle bassure della pianure, un mondo nel quale è possibile 
        realizzare il Sé anche nei perigliosi percorsi dell’età 
        oscura. Non è un caso che Evola metta bene in rilievo come la montagna 
        esiga un comportamento o, meglio, uno stile che si contrapponga a quello 
        cittadino della civilizzazione contemporanea. Innanzitutto “la castità 
        della parola e della espressione. La montagna insegna silenzio. Disabitua 
        dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. 
        Essa semplifica e interiorizza”. Poi “la disciplina interna, 
        il controllo completo dei riflessi” che mira ad una “concentrazione 
        lucida conforme allo scopo”. E, infine, l’alta montagna è 
        luogo propizio al manifestarsi dell’impersonalità attiva 
        in quanto “ci abitua ad un’azione, che fa a meno degli spettatori, 
        di un eroismo che rifugge dalla retorica e dal gesto”. 
         
        Evocatrice, anche, la tacita e luminosa maestà dell’alpe. 
        E la massima evocazione di idee e di simboli compare nell’articolo 
        che dà il titolo all’intera raccolta, Meditazione 
        delle vette, laddove Evola con rara efficacia, di fronte al grandioso 
        spettacolo di cime e di ghiacciai che si squadernano alla vista dall'’alto 
        del monte Bianco, è insensibilmente portato a pensare all’ 
        “idea di una superiore, immateriale unità, del fronte invisibile 
        di tutti coloro che […] oggi lottano in ogni terra una stessa battaglia, 
        che vivono una stessa rivolta e sono i portatori di una stessa intangibile 
        tradizione […] Forze apparentemente isolate e disperse […] 
        intese a custodire l’ideale assoluto dell’ Imperium 
        e a prepararne l’avvento, dopo che il ciclo relativo a questi tempi 
        oscuri sarà chiuso”.  
        Le vette qui parlano, allora come oggi, a chi sa cogliere il loro linguaggio, 
        contrassegnato dal sigillo dell’ aeternitas. 
       
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