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DI GEOFILOSOFIA


C. D. Friedrich, Seestück bei Mondschein, 1827-28

Caterina Resta

Atlantici o mediterranei?

“Mesogea”, 0, 2002, pp. 53-63

 

3. Nietzsche pensatore oceanico

E proprio a Colombo, nell’estate del 1882, dopo un inverno trascorso a Genova, Nietzsche dedicherà una poesia dal significativo titolo Columbus novus: «Là voglio essere io: e confido / In me, d’or innanzi, e nel mio timone. / Aperto è il mare: nel suo cupo azzurro / si spinge la mia prora genovese. / Tutto sempre più nuovo mi diventa, / Alle mie spalle è Genova. / Coraggio! Se la mia nave guidi, / Carissima Victoria!» (11). Benché, come molti tedeschi, sentisse il fascino del Sud, del sole e del mare Mediterraneo, sulle cui rive amava svernare, non c’è dubbio che Nietzsche sia il filosofo che più di ogni altro abbia compreso la sfida del mare aperto e sentito il richiamo dell’Oceano. Con lui, i filosofi diventano «aerei naviganti dello spirito» (12), «arditi uccelli che spiccano il volo nella lontananza, nell’estrema lontananza» (13), spingendosi sempre più oltre nel mare della conoscenza, «in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare, mare!» (14). Nel loro andare «al di là del mare», essi sono animati da una «possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio» (15), l’inesausta sete di un sapere finalmente libero, senza più vincoli. Un medesimo ardore sospinge l’Ulisse dantesco e questi aerei naviganti, che confidano solo in se stessi e nel proprio timone, una medesima brama di sapere ne stabilisce la rotta, una stessa audacia li accomuna. Anche loro, come quell’Ulisse e come Colombo, si dirigono «laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità […] volgendo la prua a occidente» (16), anche loro inseguono il sole che declina, sono disposti al tramonto, purché sorga l’aurora di un nuovo mattino, consapevoli di correre il rischio di «naufragare nell’infinito» (17). E mai così “dolce” apparve naufragare in questo mare!

Ma chi sono questi temerari avventurieri del pensiero, per i quali irresistibile è il richiamo dell’oceano? Sono i nuovi filosofi, coloro che si sono liberati di Dio, accogliendo la sua morte senza rimpianti, ma anzi con la baldanza di chi ha il presagio di una nuova aurora. Scrive Nietzsche nell’aforisma 343, che apre il quinto libro della Gaia scienza, intitolato significativamente Noi senza paura:

«finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così “aperto”» (18).

Non mare interno, mesógeos, questo mare nostrum è ormai un mare sconfinato, libero, aperto; nessuna sponda può più contenerlo, nessuna terra delimitarne i bordi. L’ampia distesa equorea che si spalanca davanti a questi intrepidi naviganti non dispiega il suo spazio tra terre conosciute, non lambisce alcuna costa, né alcun porto può offrire sosta e riparo. La nave che veloce solca questa liscia superficie si lascia risolutamente alle spalle ogni ormeggio come ogni molo; nessun’áncora potrebbe ormai ancorarla né giungere a toccare il fondo: «mai sino ad oggi un più profondo mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri temerari» (19) e perciò bisogna andare sempre avanti, spingersi sempre oltre, tenere «la mano salda sul timone» (20), poiché non ci sono più stelle fisse a orientarci nel cammino, ma solo la fissità di uno sguardo che conosce una sola direzione, quella del continuo superamento. Ulisseide progenie, quella dei nuovi filosofi, dei filosofi dell’avvenire, essa condivide con l’eroe greco una certa capacità dissimulativa, sebbene messa ormai del tutto al servizio di quell’ardente desiderio di conoscenza, di quella curiositas che è propria piuttosto dell’Ulisse dantesco: «il nostro coraggio di avventurieri, la nostra curiosità accorta e raffinata, la nostra più sottile, più dissimulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento del mondo, che vaga e aleggia cupida intorno a tutti i regni dell’avvenire» (21).

Un innatus cognitionis amor che lo rende sapientiae cupido apparenta il nuovo filosofo nietzscheano all’Ulisse di Cicerone, tra le probabili fonti di Dante. Ma questa bramosia di conoscenza è divenuta ormai volontà di sapere, Wille zur Macht come conoscenza (22) che nessun ostacolo può ormai fermare nella sua corsa sfrenata. Nessun «folle volo» la intimorisce, poiché davvero ha completamente obliato ogni senso del limite. Novus Columbus, il filosofo dell’avvenire non avverte più neppure il Termine imposto al suo viaggio e ormai completamente distrutte nel loro valore simbolico appaiono le Colonne d’Ercole, fedeli guardiane di una misura mediterranea ormai obsoleta. «Via sulle navi, filosofi!» (23): è questo il perentorio invito a prendere il largo che Nietzsche lancia ai pensatori dell’avvenire, incitandoli a scoprire più di un nuovo mondo nell’«oceano del divenire» (24); li sollecita a trasformarsi in «avventurieri e uccelli migratori» (25), dallo sguardo vigile e accorto, pronto a carpire «con la maggior fretta e curiosità possibili» tutto ciò che cade sotto lo sguardo. Insieme a loro brama di avventurarsi «lontano sull’oceano, non meno superbi di lui stesso» (26). Uomini oceanici, atlantici, questi temerari eroi della conoscenza sono quegli «aerei naviganti dello spirito» che dalla Vecchia Europa sciamano, come uccelli migratori, spiccando il volo alla volta di nuovi più ospitali lidi, pur sapendo che nessun terreno potrà essere d’ora innanzi sicura dimora, ma solo esiguo punto d’appoggio per volare ancora più lontano. Forse nessun passo nietzscheano riesce a cogliere con maggiore efficacia il senso di questa pericolosa traversata come il celebre aforisma 124 della Gaia scienza, dal titolo Nell’orizzonte dell’infinito:

«Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nella pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!» (27).

Lungi dall’essere nóstos, il viaggio cui pensa Nietzsche è davvero éxodos, un salpare senza ritorno. Non più póntos, questo mare costringe a tagliare tutti i ponti, a cancellare anche la terra che ci si lascia definitivamente alle spalle. Ora la nave diviene unica e sola precaria dimora per chi sente d’essersi imbarcato, lasciandosi indietro solo un’incerta scia disegnata sull’acqua. Ovunque è oceano, smisurata distesa d’acque senza più terre all’orizzonte e lo sguardo è sempre confitto in avanti, nell’incessante avanzamento della prua che si fa strada su rotte sconosciute. Infinito è l’oceano, illimite e senza riconoscibili confini, spazio sterminato e privo di misura, ma, proprio per questo, proprio perché omogeneo e vuoto, straordinariamente disposto ad accogliere le misure che l’uomo vorrà imporgli. Un horror vacui, uno sgomento di fronte al Niente potrebbe allora sorprendere questi audaci naviganti, poiché non c’è nulla di più spaventoso che sentirsi scivolare in questa liscia distesa priva di nómos. Qui, nell’Aperto spalancato dal mare, potrebbe assalire i naviganti il dolore del ritorno, una struggente nostalgia per la terra cui hanno voltato le spalle, dalla quale, con una suprema de-cisione, hanno preso congedo. Ma sarebbe vano cedere a questa estrema, regressiva tentazione, come se la terra potesse ancora garantire con i suoi nomoi maggiore libertà di quanta non possa invece offrirne, adesso, lo spazio infinitamente libero del mare. Non è possibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una Ent-ortung, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che, nel segno del nichilismo, non consente più radicamento e dimora. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica?

Note:

11. F. Nietzsche, Frammenti postumi Estate – Autunno 1882, in Idilli di Messina. La gaia scienza. Scelta di frammenti postumi 1881-1882, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971, F.P. 24 [1], p. 408.
Nella stessa prospettiva nietzcheana si inscrive anche il Colombo di Spengler, incarnazione dello spirito faustiano e della sua «oscura nostalgia per l’illimitato» (O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1981, p. 502). Come Copernico, Colombo avrebbe realizzato una analoga rivoluzione dello spazio, decretando «la vittoria dell’infinito sulla limitatezza materiale del presente e dell’afferrabile» (ivi, p. 417), sospinto «dal desiderio di avventura e dall’impulso verso lontananze sconfinate» (ivi, pp. 502-503), da un’irrefrenabile tensione al dominio di spazi sempre più vasti. Anticipando alcune considerazioni di Schmitt, secondo Spengler proprio dalla stagione delle grandi scoperte geografiche prese l’avvio quella civiltà faustiana che avrebbe condotto l’Occidente ad inglobare in sé il mondo intero: «Le scoperte di Colombo e di Vasco de Gama ampliarono incommensurabilmente l’orizzonte geografico: l’oceano andò a contrapporsi al continente secondo lo stesso rapporto con cui lo spazio cosmico sta alla terra. E solo allora si scaricò la tensione politica della coscienza faustiana del mondo. Per i Greci l’Ellade fu e rimase la parte essenziale della superficie terrestre; con la scoperta dell’America l’Occidente divenne una provincia di un tutto gigantesco. A partire da tal momento, la storia della civiltà occidentale assume un carattere planetario» (ivi, p. 504). Cominciò allora, con Copernico e Colombo, nel segno di una sconfinata volontà di potenza, a definirsi il tratto essenziale di questa civiltà, quello spirito faustiano caratterizzato dalla brama di espansione e dal desiderio dell’illimitato: «la rappresentazione degli spazi siderali nella quale si è sviluppata l’immagine del mondo di Copernico, il dominio della superficie terrestre da parte dell’uomo europeo in seguito alla scoperta di Colombo, […] la passione degli uomini della civilizzazione per i trasporti veloci, il dominio dell’aria, le spedizioni ai poli e la scalata di cime quasi inaccessibili – in tutto ciò affiora il simbolo elementare dell’anima faustiana, lo spazio illimitato, e le forme puramente euro-occidentali del mito dell’anima, cioè la “volontà”, la “forza”, l’“azione”, vanno concepite come particolare derivazioni di esso» (ivi, p. 508).
12. Così si intitola l’aforisma 575 che conclude F. Nietzsche, Aurora, in Aurora. Scelta di frammenti postumi (1879-1881), a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971.
13. Ivi, pp. 257-258.
14. Ivi, p. 258.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Ibidem.
18. F. Nietzsche, La gaia scienza, in Idilli di Messina La gaia scienza Scelta di frammenti postumi 1881-1882, cit., p. 195.
19. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 29.
20. Ibidem.
21. Ivi, p. 135.
22. Per questa interpretazione di Nietzsche appare decisiva ovviamente la straordinaria lettura di Heidegger (cfr. M. Heidegger, Nietzsche, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994).
23. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 289, p. 160.
24. F. Nietzsche, Aurora, cit., af. 314, p. 317.
25. Ibidem.
26. Ibidem.
27. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 124, p. 125. È da notare la posizione strategica di questo aforisma, che Nietzsche ha voluto premettere a quello, ancor più celebre, dell’annuncio della morte di dio.

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