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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Il paesaggio è la nostra casa

"Il Domenicale", 23 novembre 2002


 

1. Conservazione: una parola scomoda

La questione (e il termine stesso) della "conservazione" è un problema cruciale e ineludibile, difficile da pensare e da argomentare, per l’immediata - quanto spesso irriflessa e pregiudiziale - diffidenza che suscita. Eppure la "conservazione" è un aspetto non secondario in qualsiasi riflessione che voglia comprendere la realtà del paesaggio al di là del mero studio delle forme tramandateci del passato: alla conservazione e alla tutela dei beni culturali, ma anche ambientali, sono dedicati corsi di studio e di specializzazione, istituzioni, saperi e tecnologie specifiche. Oggi che si fa sempre più urgente e sentita l’esigenza di un pensiero del paesaggio (o del territorio) come identità singolare dei luoghi non ci si può esimere dal porsi la questione e interrogarsi sul valore della conservazione, allargando il dibattito sulla conservazione, presente e vivo in ambito architettonico e storico-artistico, alla considerazione filosofica ed estetica, ma soprattutto geofilosofica.

Di fronte al paesaggio di Orte scempiato dal disordine e dalla sciattezza delle nuove edificazioni, Pierpaolo Pasolini poteva legittimamente mostrare come il degrado estetico andasse congiunto a una decadenza civile e sociale. Del pari, Cesare Brandi, già negli anni Sessanta, denunciava aspramente l’inizio del disastro civile e ambientale che si stava prefigurando per l’Italia proiettata nella logica del boom economico, nell’incomprensione per il valore di irrepetibile identità del paesaggio italiano, del suo essere non un generico pittoresco, "ma un pittoresco storicizzato, assurto a fisionomia stessa del paese", e rivendicava un’attiva difesa e sostegno all’agricoltura, di contro all’industrializzazione più irresponsabile, come la forma più efficace di salvaguardia della facies dei paesaggi storici. Analogamente, tutto il mondo ha stigmatizzato il vandalico abbattimento del ponte di Mostar, simbolo e realtà della cultura bosniaca: la sua distruzione faceva parte della volontà di annullare la specificità della cultura (evidentemente non solo estetica) che lo aveva costruito e conservato come segno e parte irrinunciabile del proprio essere. Analogamente, quando i Taliban hanno fatto saltare in aria le colossali statue del Buddha di Bamiyan, l’opinione pubblica ha correttamente compreso che, oltre l’iconoclasmo islamico, era stata determinante una volontà di umiliazione e annichilimento di un’altra millenaria tradizione. Però, oggi, se si pone l’accento sull’inscindibilità della manifestazione estetica di un paesaggio dalla sua realtà culturale, dalle modalità dell’abitare che in quel luogo si realizzano (dunque delle scelte economiche, ecologiche, sociali, sacrali, ecc.), mostrando come lo scempio paesaggistico e la dissipazione del patrimonio storico e architettonico non siano una deplorevole svista causata dalla priorità di questioni ineludibili (l’economia, il mercato, la modernizzazione), ma discendano necessariamente dal modello culturale della modernizzazione e dall’indiscriminata apertura a modelli globalizzanti, immediatamente si è sospettati di "conservatorismo" e di nostalgie passatiste.

Tra gli esperti di conservazione dei beni monumentali e architettonici, invece, è abbastanza normale esprimere allarme e indignazione per la distruzione accelerata portata dalla "ruspa del moderno"; ma anche in alcuni dei più autorevoli urbanisti, negli ultimi anni, forse anche a motivo della presenza di un clima di pensiero geofilosofico (esplicitamente menzionato negli scritti recenti di Paolo Portoghesi), ricorre l’affermazione della improrogabile necessità di mutare i paradigmi della pianificazione, i suoi obiettivi, ritmi, strumentazioni tecniche e concettuali: la necessità di conservare, ripristinare, ma anche di demolire e de-costruire, riconoscendole come aberrazioni dannose, molte costruzioni (residenziali, ma anche infrastrutture) realizzate nei decenni scorsi in nome del modernismo e della modernizzazione. Nel contesto tardomoderno in cui giungono al più alto livello la crisi e l’insostenibilità di un modello di sviluppo basato sul dogma di una crescita illimitata, e dunque sulla riduzione del territorio a estensione indifferentemente manomettibile dalla tecnica e da criteri di economicità dettati dalla globalizzazione, si impone con urgenza la questione della distruzione irreversibile di quel patrimonio che sono i luoghi, non più interpretabili come meri depositi di risorse o di spazio. Il territorio, in quanto realtà naturale e ambientale, ha proprie regole di conservazione e riproduzione (di lunga durata), le quali, se vengono ignorate, portano al dissesto e alla distruzione. I luoghi sono sempre dotati di una propria "individualità" che costituisce propriamente la loro facies culturale, il loro essere paesaggio prodotto da comunità che ne rispettano la logica intrinseca di configurazione e mantenimento.

In altri termini, i paesaggi della nostra cultura sono tali solo se "i caratteri fondativi delle identità dei luoghi", sono riconosciuti nella loro natura di "patrimonio territoriale" durevole. Secondo Alberto Magnaghi, devono essere questi "caratteri identitari", che costituiscono il "valore di un luogo", a dettare "direttive, prescrizioni, azioni per la tutela e la valorizzazione secondo obiettivi prestazionali riferiti alla sostenibilità dello sviluppo, dal momento che è la permanenza e la durevolezza di tali caratteri a costituire l’indicatore principale della sostenibilità". Va subito allontanato lo spettro di una conservazione come mera imposizione di "vincoli", attuata prevalentemente a posteriori, a partire da una logica che, riconoscendo l’ineluttabilità del degrado, si limita a preservare artificialmente tracce e testimonianze di un passato non recuperabile se non in forma documentaria. Si tratta invece di porre le basi per una riterritorializzazione, una sempre ulteriore valorizzazione dei luoghi che non si limiti alla loro fissazione museale o turistica, ma che altrettanto si rifiuti di considerarli come semplici "risorse" in un’ottica esclusivamente economicistica.

Di fatto non può sussistere paesaggio senza trasmissione di sapere, cultura e stile specifici del territorio (inteso come il risultato di atti coerenti, anche se distribuiti in un arco temporale magari molto lungo, di territorializzazione): senza tradizione. Ma la tradizione, diversamente dall’accezione imbalsamatoria ed eternizzante in cui per lo più suona il termine, è un processo dinamico di selezione, valorizzazione, adattamento del "patrimonio" che costituisce una cultura nella sua differenzialità, mantenendo però la riconoscibilità delle "matrici formali" nell’incessante adattamento e trasformazione della realtà territoriale: esse devono poter costituire il più a lungo possibile il terreno comune e il criterio fondamentale di ogni progetto che riguardi quel luogo.

Intenti non molto diversi sono enunciati nei testi di un altro celebre urbanista, difficilmente tacciabile di essere "nostalgico" o "conservatore", Pier Luigi Cervellati. Il sottotitolo di un suo libro recente recita: "Una ‘modesta proposta’ per non perdere la nostra identità storica e culturale e per rendere più vivibili le nostre città". In un certo senso, il testo è una presa d’atto dei molti errori di valutazione compiuti dall’architettura e dall’urbanistica moderniste e progressiste e degli scempi ambientali e urbani che ne sono derivati. La tesi forte di Cervellati è che non si devono costruire nuove città e grandi opere infrastrutturali, bensì "ripristinare" le forme del territorio precedenti alla barbarizzazione modernista e industrialista, non esitando a percorrere con determinazione la strada della demolizione ogni volta che si renda necessaria. Occorre rinaturalizzare, restaurare l’antica interdipendenza delle città con i loro territori, tornare a pretendere e a realizzare bellezza. Non si tratta soltanto di un restauro/ripristino dei soli "monumenti", o una fossilizzazione di quanto del passato è sopravvissuto all’ondata devastatrice del cosiddetto "sviluppo". Al contrario, è partendo dalla tradizione che diventa possibile progettare per il futuro, ri-fondare la città a partire da un correlativo recupero delle campagne e da un privilegiamento del riuso e della manutenzione delle strutture esistenti: "Il paesaggio non appartiene tanto alla sfera della "creatività", quanto a quella della manutenzione. E del restauro inteso […] quale restituzione". È un’affermazione molto forte, e forse scomoda, della necessità, in molti casi, di un’emendazione del paesaggio dagli interventi e dagli effetti di progettazioni miopi e devastanti – esteticamente, civilmente, ecologicamente. Dunque, in certi casi, non solo si può, ma si deve concepire il futuro come un ritorno allo statuto intrinseco dei luoghi, "ristabilendo le condizioni originarie dei luoghi deturpati […] Il bosco deve ritornare ad essere un bosco, il prato un prato".

 

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