Luisa Bonesio
L'evoluzione del sentimento estetico
delle Alpi
tra Settecento e Novecento
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Lezione tenuta nel Corso “Anche
le montagne hanno una storia”, Varese, giugno 2002, in
corso di pubblicazione |
1.
In prospettiva
Da quando furono “inventate” (1),
le Alpi non hanno smesso di essere guardate, raffigurate, percorse, studiate.
Un’innumerevole quantità di documenti visivi, un reiterato
accostarsi ad esse che ha costituito una potente codificazione iconografica
ed estetica, con un effetto di durata persistente, ma, al tempo stesso,
man mano che ci si avvicina ai nostri giorni e dunque in dipendenza delle
trasformazioni tecniche, sottoposto a significative modificazioni. Se
le Alpi, nell’immaginario collettivo almeno fino agli anni ’50
del secolo scorso, hanno costituito un linguaggio visivo ed emotivo sostanzialmente
unitario, oggi occorre interrogarsi sull’effettiva persistenza di
quel modello, a fronte di modalità di “fruizione” della
montagna e degli spazi “naturali” inediti e per molti versi
sovvertitrici delle precedenti e consolidate forme di esperienza.
Se si cerca di compilare un sommario regesto di elementi che caratterizzano
la percezione estetica della montagna in quanto paesaggio, anche in questo
caso, la determinazione prospettica della visione non può che costituirne
il primo, imprescindibile elemento: la prospettiva artificiale di origine
rinascimentale, con le sue regole costruttive, è la “forma
simbolica” che permette l’avvento della raffigurazione paesaggistica
(2) in senso propriamente
moderno. Nel caso della montagna, in pittura come nell’esperienza
culturale, si attua un lento ma inesorabile avvicinamento alle Alpi: dalla
Pesca miracolosa di Konrad Witz (1444) in
cui è possibile riconoscere monti reali (il Mont Môle e il
massiccio del Bianco), e non solo convenzionali, nello sfondo del dipinto,
la progressiva messa a fuoco della catena alpina e delle sue montagne
porterà a una sempre maggiore definizione della loro fenomenologia.
Ma è importante ricordare che la scoperta estetica delle Alpi era
avvenuta primariamente nella scrittura, nelle formulazioni dei sentimenti
suscitati dallo spettacolo disarmonico e spaesante dei dirupi e delle
pareti scoscese, di una natura inospite e severa, assai distante dal desiderio
di messa in forma ragionevole espresso dalle poetiche razionali dell’Europa
delle corti e dei giardini all’italiana. Dall’espressione,
destinata a divenire rapidissimamente cliché
fortunato, di John Dennis, del “delizioso orrore” provato
nell’attraversamento delle Alpi, alla ripetizione ossimorica, nei
termini del gusto sublime e pittoresco, di un’emozione ormai incollocabile
nel quadro ordinato delle facoltà e dei loro attributi, da parte
di un sempre più ampio numero di viaggiatori intellettuali diretti
verso l’Italia, si inaugura e si consolida uno sguardo “sentimentale”
che nel giro di pochi decenni si sostanzierà anche delle osservazioni
naturalistiche di studiosi ed esploratori, senza che questi sguardi, almeno
per un tempo rilevante, si contraddicano in termini di gusto (3).
Così, mentre da un lato lo studio botanico, geologico, paleontologico,
meteorologico produce figurazioni di dettaglio - spesso ancora in bilico
tra rappresentazione mitica e osservazione scientifica, com’è
il caso di Jakob Scheuchzer -, il sentimento delle Alpi, codificato dapprima
nella sua diffusione sociale attraverso il formulario emotivo ed estetico
dei viaggiatori, e poi anche dalle filosofie della naturalità e
della sua primarietà etica, nonché dalla fiorente letteratura
sulla bellezza esemplare del paesaggio svizzero (4),
comincia a essere fissato nell’iconografia, dapprima attraverso
la tecnica dell’incisione (5),
della stampa e dell’acquerello (6).
Il linguaggio delle forme e dei volumi montani, insieme ad alcuni elementi
caratteristici per l’epoca (XVIII sec.) - il torrente e la forra,
le conifere irsute e contorte, l’effetto di silenzio raggelato di
ciò che nella realtà è rumore assordante, le cascate,
le slavine, la bizzarria delle configurazioni naturali - si stabilizza
in un’immagine della montagna guardata dalla distanza in cui può
esercitare il massimo effetto di sublimità: dunque nel risalto
schiacciante della sua mole, della sua pietrosa maestà, valorizzandone
i tagli dell’impervio, dell’incombente, del minaccioso; ma
anche della sua spettrale osticità, della sua scostante solitarietà,
della sua fantasticata impercorribilità. Ancora su Horace-Bénédict
de Saussure, il primo esploratore del Monte Bianco, l’impressione
prodotta dalla natura selvaggia della montagna è straniante e opprimente:
gli aggettivi “selvaggio”, “imponente”, “terribile”,
“spaventevole”, “triste”, “desolato”;
i laghetti neri, i larici striminziti e tristi, il cielo come una voragine
nera (7) disegnano efficacemente
il volto scostante che l’alta montagna presenta ai suoi esploratori.
Ma la repulsione o l’estraneità per l’esibizione della
potenza delle masse alpine era stata espressa da molte altre voci dell’epoca,
compreso Goethe, che pure era massimamente interessato ad altri aspetti
(soprattutto geologici e atmosferici) della natura montana: nel suo viaggio
in Svizzera, nel cantone di Uri, “le rocce diventavano ancor più
possenti e spaventose, l’immenso deserto selvaggio sembrava allargarsi
ancora, le pareti diventavano montagne, le forre si facevano abissi, nelle
alte solitudini il sonaglio degli animali da soma si mescolava al rumore
delle cascate”.
Questa intonazione emotiva colora, nella sua indubbia ambivalenza, peculiare
del sentimento sublime, le rappresentazioni dei paesaggi alpini. Forse
nessun artista come il pittore svizzero Caspar Wolf (1735-1783) ha saputo
cogliere, in 170 quadri ritraenti luoghi dell’Oberland bernese,
del Vallese, della valle di Uri, vari ghiacciai e siti pittoreschi, “tutto
ciò che la natura racchiudeva di meraviglioso e terribile in quelle
regioni” (8). I suoi
acquerelli si possono considerare esemplari nell’illustrare la percezione
sublime delle Alpi: le masse rocciose nella loro architettura, le guglie,
i ghiacciai con pinnacoli e crepacci, le forre e i precipizi, i ponti
vertiginosi e arditi (p. es. Il ponte del diavolo
a Schöllenen), i forti chiaroscuri, le rocce incombenti, le
grotte, le nuvole e le brume, mediante una resa naturalistica dei particolari
combinata con una sensazione dell’insieme decisamente preromantica,
spaventevole e quasi spettralmente smaterializzata. Giustamente è
stato osservato che le immagini di Wolf dovevano produrre sui contemporanei
un’impressione vertiginosa, come lo spalancamento di una dimensione
abissale di tempo e di spazio ignoti, o comunque lontanissimi, pur riferendosi
a luoghi situati nel cuore dell’Europa. Manifestazioni di una natura
a lungo mantenuta estranea dalle culture urbane, ma anche emblema di spazi
desertici e desolati, di rocce in rovina, o misterioso e silente crogiolo
di forme remote e fantastiche, dai cristalli ai fossili, alle inquietanti
metamorfosi delle nubi e dei ghiacci, le Alpi finiscono per incarnare
la propensione estetica verso una natura che viene ormai vista nella forma
del paesaggio e prediletta nei suoi aspetti selvaggi e primordiali. Primo
genere della cultura paesaggistica europea (9),
quello alpino consente alla società del tempo un progressivo e
sempre più intenso e penetrante accostamento alle montagne, che
si può leggere nella cifratura delle rappresentazioni iconografiche.
Non è arduo scorgere in tutto ciò la proiezione compensativa
e nostalgica di una cultura europea sempre più inoltrata nel suo
destino industriale e urbano, pronta a costruire il mito dell’incontaminatezza
primordiale degli spazi alpini: i quali, in realtà, erano da sempre
stati luoghi di intenso passaggio e di scambi, ed erano dotati di ben
individuate forme culturali. Ma lo sguardo cittadino cui si deve la codificazione
estetica delle Alpi imprime su di esse il vagheggiamento di una natura
selvaggia, terribile ma forse anche giusta ed esemplare, ospite severa
ma formativa di genti che, in un primo momento temute come selvagge e
banditesche (10), vengono
rapidamente assimilate all’icona dello Svizzero integerrimo alla
Rousseau, almeno nell’iconografia.
Se questa percezione non impedisce, anzi incrementa potentemente la penetrazione
e l’immediato sfruttamento turistico delle località alpine,
favorendo la trasformazione o la sfigurazione di sistemi di vita millenari,
forse la realtà delle culture alpine era destinata a rimanere ancora
a lungo nascosta nel pervasivo cliché
dell’estetica urbana.
1. Riprendo il termine nell’accezione codificata nel testo di Ph.
Joutard, L’invenzione del Monte Bianco,
tr. it. di P. Crivellaro, Einaudi, Torino 1993.
2. Cfr., p. es., A. Roger, Court traité
du paysage, Gallimard, Paris 1997.
3. Cfr. E. Pesci, La scoperta dei ghiacciai.
Il Monte Bianco nel ‘700, CDA, Torino 2001 e P. Giacomoni,
Il laboratorio della natura. Paesaggio montano
e sublime naturale in età moderna, Angeli, Milano 2001.
Sul viaggio pittoresco, cfr. G. Scaramellini, Il
pittoresco e il sublime nella natura e nel paesaggio, in M. Baldino,
L. Bonesio, C. Resta, Geofilosofia,
Lyasis, Sondrio 1996, E. Pesci, La montagna
del cosmo. Per un’estetica del paesaggio alpino, CDA, Torino
2000.
4. Cfr. A. von Haller, Die Alpen (1729),
tr. it. di P. Scotini, Tararà, Verbania 1999.
5. P. es. J.J. Scheuchzer, Itinera per Helvetiae
Alpinas regiones (1708).
6. Sull’evoluzione della pittura alpina, il rimando classico è
a U. Christoffel, La peinture de Montagne,
CAS, Zöllikon 1963.
7. H.-B. de Saussure, Voyages dans les Alpes,
tr. it. parziale a cura di P. Brogi, Le prime
ascensioni al Monte Bianco, Savelli, Roma 1981.
8. La citazione dall’Allgemeines Künstlerlexicon
è in U. Christoffel, op. cit., p. 73.
9. Sulle culture di paesaggio e le culture senza estetica del paesaggio,
cfr. A. Berque, Les raisons du paysage. De
la Chine antique aux environnements de synthèse, Hazan,
Paris 1995 e L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio,
Mimesis, Milano 2000.
Secondo lo stereotipo che aveva il suo luogo d’origine nei dipinti
di genere di Salvator Rosa, e che darà luogo all’espressione
di Horace Walpole, rivelatrice della matrice artistica dello sguardo estetico
portato inizialmente sulle Alpi, “precipizi, montagne, torrenti,
lupi, cupi tuoni, Salvatore Rosa”, coerente con un gusto avventuroso
ed esoticheggiante di cui il viaggio di William Whindam e Richard Pockoke
verso il Monte Bianco, nel 1741, testimonierà (cfr. S. Schama,
Imperi verticali, abissi della mente,
in Paesaggio e memoria, tr. it. di P.
Mazzarelli, Mondadori, Milano 1998).
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